Che cosa l’ha spinta a scrivere oggi questa nuova biografia del Dalai?
«Molte persone, a cominciare dal fratello giovane di Sua Santità, Ngari Rimpoche, autore dell’introduzione, mi hanno convinto che, grazie al mio ruolo, avrei potuto chiarire con quanti sacrifici e dedizione Kundun ci ha guidato spiritualmente nei momenti più difficili della storia del nostro Tibet occupato dalla Cina.
Entrai al suo servizio come dattilografo e traduttore grazie al fatto che avevo studiato inglese in India, dove mio padre si era trasferito da ufficiale del nostro governo molto prima dell’esilio di massa del 1959. Ho assistito il Dalai Lama fin dalle prime visite all’estero quando camminavamo per strada e nessuno lo riconosceva e poi quando è diventato famoso dopo aver vinto il Nobel della Pace nel 1989. È stato esaltante, ma anche difficile, mi creda...».
Prima della fuga da Lhasa il Dalai lama scrisse: "Il mondo ci ha voltato le spalle, compresa l’India, la vicina più prossima e nostra maestra spirituale". Poi Delhi vi ha aperto le porte e la vostra causa ha ottenuto fama universale.
«Nessun altro posto come l’India avrebbe potuto ospitare e aiutare più di 100mila profughi, nonché preservare la nostra cultura buddhista. Nel libro ho voluto però spiegare quant’è costato alla nostra gente montanara adattarsi ad altri climi in termini di sofferenze e vittime — di caldo, malaria e dissenteria. Con il pensiero sempre rivolto ai parenti rimasti sotto l’oppressione cinese. Lo stesso Ngari Rimpoche cadde vittima di una profonda depressione e secondo il Dalai Lama anche un altro suo fratello, Lobsang Samten, "è morto di dolore" dopo aver visitato per conto suo il Tibet e aver visto gli effetti drammatici dell’occupazione. I nuovi conflitti sugli attuali confini tibetani tra Cina e India sono la prova che fummo le prime vittime della politica di continua espansione di Pechino e del fatto che nessuno può fidarsi di loro».
Che cosa intende?
«Pur conoscendo la nostra sorte, Nehru aveva creduto alle false promesse di cooperazione dei comunisti finché nel 1962 non è scoppiata la prima guerra di frontiera. Lo stesso Narendra Modi ha incontrato in amicizia Xi Jinping per ben 17 volte. Ma basta guardare a cosa è accaduto ai musulmani Uiguri nello Xinjiang, alla Mongolia invasa dai coloni Han o ai cinesi di Hong Kong. Immagini le cose terribili che ancora succedono in Tibet».
Ci sono però anche nuove infrastrutture, case, strade...
«Certo, ma non c’è libertà religiosa né civile, sono tutti sotto sorveglianza, privati delle terre e deportati. Una cultura antica e un ambiente unico sono a rischio di estinzione. Col potere politico militare è cresciuta l’arroganza e la situazione è sempre peggiore, un monito per tanti altri Paesi "comprati" da Pechino come in Africa o Sudamerica. Perfino per la vostra Italia! Vede, l’unica speranza è che la Cina diventi una democrazia. Non so se sarà mai possibile, ma come Sua Santità sono rimasto impressionato dal crescente numero di dissidenti cinesi e di giovani conosciuti durante i nostri viaggi che venivano a scusarsi a nome del loro Paese per gli orrori riservati ai tibetani. Uno studente incontrato in Norvegia voleva perfino firmare una petizione, ma Kundun lo sconsigliò vivamente quando seppe che era il governo a pagargli gli studi».
In alcune delle sue prime missioni all’estero, ha accompagnato il Dalai in Vaticano a incontrare Paolo VI prima e Giovanni Paolo II poi.
«Sì e ho visto nascere un’amicizia profonda con il pontefice polacco che lo ricevette ben otto volte, forse perché paragonava la situazione del Tibet a quella della sua terra sotto occupazione nazista e russa. Ora papa Francesco rifiuta di ricevere il nostro leader perché sta trattando con Pechino il riconoscimento dei vescovi di Roma, ma comprendo e non viene meno la mia stima per il coraggio della sua lotta contro gli abusi dei preti sui bambini e le violazioni dei diritti umani. Sono certo che in cuor suo conosce e sostiene la nostra causa».
Nel libro racconta che nei vostri primi lunghi viaggi il Dalai "perdeva la pazienza se qualcosa non andava come programmato o i bagagli arrivavano tardi la sera".
L’ha mai sgridata?
«Oh, sì — ride — eccome... È un maestro severo quando non si svolge bene un compito. Anche quando i programmi erano meno fitti e riuscivamo a passeggiare in incognito o ad andare al ristorante insieme, le trasferte erano spesso stressanti. Eravamo ospiti di monasteri o strutture offerte da benefattori e, allora come oggi, Sua Santità si ritirava a letto molto presto per poter meditare alle 3 del mattino. È stata una gavetta utile.
Che mi ha aiutato quando è diventato famoso: ogni volta c’era un vero e proprio assalto di gente comune e Vip che volevano incontrarlo e io dovevo fare da cane da guardia della sua privacy».
Siete stati ricevuti da molti capi di Stato, come Gorbaciov, Walesa, Havel, Mandela, Obama fino a George W. Bush che lo insignì della medaglia d’oro del Congresso.
«Sua Santità divenne un amico stretto anche di Bush. In America anche molte star di Hollywood sposarono la nostra causa. Ma spesso non riconosceva nemmeno celebrità come Robert De Niro e io che sono un grande appassionato di cinema ci rimanevo male. Le cose però sono cambiate. Sono persino riuscito a convincere il vero Kundun a dire la sua sul copione del film omonimo di Martin Scorsese. A casa della sceneggiatrice Melissa Mathison, ho visto suo marito Harrison Ford piangere due volte mentre lo leggeva».