La Stampa, 19 novembre 2020
La riforma di Madrid premia le lingue locali
Il Covid aveva messo da parte uno dei tormentoni della politica spagnola: litigare sulle lingue nazionali. L’occasione per il ritorno dell’infinito dibattito è la riforma dell’istruzione. La nuova legge, ribattezzata la "Ley Celaá", dal nome della ministra del governo progressista di Pedro Sánchez, consente l’esclusione del castigliano come "lingua veicolare" nelle scuole del regno. Le materie quindi si studieranno nell’idioma scelto dalla comunità autonoma, con lo spagnolo relegato a un numero ridotto di ore di studio. Di per sé si formalizza quello che già avviene da molti anni in Catalogna e Paesi Baschi (in forma diversa), ai quali si sono aggiunti più di recente la Comunità Valenciana e l’arcipelago delle Baleari. Modello ancora diverso è in vigore in Galizia.
Il via libera del parlamento, con il voto decisivo di socialisti, Podemos e degli indipendentisti catalani di Esquerra, ha scatenato le reazioni durissime, non solo dell’opposizione di centrodestra, da Ciudadanos a Vox, ma anche della parte più continentale (e centralista) dei socialisti. Tutti d’accordo nella denuncia: «Il castigliano è in pericolo». Alcuni giuristi poi hanno notato come questa riforma sia incostituzionale, in contrasto con l’articolo 3: «Il castigliano è la lingua spagnola ufficiale dello Stato. Tutti gli spagnoli hanno il dovere di conoscerlo e il diritto di usarlo». Non mancheranno quindi ricorsi al Tribunale costituzionale. Il paradosso indicato dai critici è che, ai 483 milioni di "parlanti" della lingua di Cervantes, la seconda più diffusa al mondo dopo il cinese, vengano sottratti gli abitanti delle comunità autonome che hanno una propria lingua, con una storia e una grammatica consolidata. La replica è che ci si inventa un conflitto che non esiste, visto che il bilinguismo si vive con totale normalità ovunque.
Ma come stanno le cose? La Catalogna è il caso più emblematico: la filosofia che ispira l’insegnamento nella scuola pubblica è la cosiddetta "immersione linguistica". Il presupposto con cui la Generalitat ha lanciato negli anni ’80 questo modello è di natura sociale. Lo scopo è consentire a tutti l’ingresso nel mondo del lavoro. Quindi anche ai ragazzi che non avevano accesso al catalano, né in casa (spesso erano figli di emigranti spagnoli), né nel proprio ambiente. L’obiettivo finale è che dopo il diploma tutti possano parlare correttamente le due lingue. Le statistiche sembrano confermare questo punto: il 93,2% dei catalani usa (più o meno spesso) il castigliano, mentre tre quarti della popolazione utilizza il catalano. Se la somma non fa cento è perché prevale il bilinguismo. L’obiezione dei critici è che questo sistema abbia fomentato la costruzione di una identità nazionale, poi culminata nel movimento indipendentista.
«Lei può girare tutta la Catalogna e non troverà nessuno che non sappia parlare lo spagnolo», dice (in perfetto castigliano) Francesc Marc Alvaro, professore dell’Università Ramon Llull ed editorialista di punta de La Vanguardia. «Quello della scuola è un modello che qui ha goduto di un consenso praticamente unanime. Almeno fino a che alcuni partiti, come Ciudadanos, hanno cercato di trarne un vantaggio politico. La immersione è stata voluta dal nazionalismo catalano, insieme a socialisti, comunisti, sindacati e alla chiesa di base. La gran parte dei genitori che non parlano il catalano, sono contenti che i figli possano impararlo. Questo non è il Belgio, qui non c’è nessun conflitto per la lingua».
Il modello basco è differente. Lì sono le famiglie a scegliere tra tre tipi di istruzione: quella esclusivamente in euskera (la difficile lingua nazionale), in spagnolo o un sistema misto. Negli ultimi anni anche nelle isole Baleari e a Valencia, in coincidenza con il ritorno al governo dei socialisti alleati con partiti regionalisti, sono scoppiate polemiche per la presunta emarginazione dello spagnolo, non solo in ambito scolastico. Neanche il Covid ferma questo scontro atavico.