Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  novembre 19 Giovedì calendario

La scuola non aiuta i bambini geniali

È difficile chiamarlo «dono», quando il bambino che l’ha ricevuto è arrabbiato, infelice, incompreso. Non stiamo parlando di un regalo di Natale, ma di un cervello geniale. Una mente con un quoziente intellettivo ben al di sopra della media, cioè più di 130 (la norma è tra 80 e 120). Praticamente, una Ferrari nel corpo di un piccolo che vede, sente e capisce ai 300 all’ora il mondo che gli sta intorno. Mentre i compagni, gli insegnanti, i genitori viaggiano a 120. Le serie tv sono costellate di storie di «baby-prodigi», non ultimo il successo Netflix «La regina degli scacchi», che racconta il talento di una giovanissima giocatrice in fuga da un’infanzia triste.
Ma la verità oltre gli stereotipi è che l’intelligenza di questi bimbi geniali si trasforma spesso in una grande difficoltà. A stare con gli altri prima di tutto: perché ci si sente diversi, più veloci a ragionare, più sensibili emotivamente. A ricevere gli stimoli giusti per crescere: la società tende a normalizzarti, la maestra a punirti con una nota, se sfoghi la frustrazione con l’aggressività. Le statistiche dicono che il 5 per cento degli studenti è plusdotato, uno per classe. Arriviamo all’8% se consideriamo gli alunni con alto potenziale, con Qi tra 120 e 130. Il guaio di questi fenomeni, però, parte proprio a scuola, fin dall’infanzia. Perché il sistema formativo italiano, che dal 2018 considera questa intelligenza particolare come Bes – Bisogno educativo speciale -, al pari di dislessia, disgrafia o altre sindromi e disturbi, non è in grado di offrire programmi personalizzati agli studenti, per potenziare il loro vantaggio. Anzi, molto spesso i cosiddetti bambini «gifted» – da «gift» in inglese (dono) -, non sono nemmeno riconosciuti, «finiscono nel limbo degli alunni con problemi di comportamento, fenomeni in qualche materia, ma maleducati e oppositivi, da rimettere in riga, una minaccia per i compagni», spiega Valeria Fantino, preside dell’I.C. Centro Storico di Moncalieri (Torino), che in Piemonte ha lanciato una rete di sostegno e uno sportello per insegnanti e genitori di bimbi plusdotati. Domani, il tema sarà affrontato in un convegno dal titolo «Genio a chi?»: le iscrizioni aperte ai docenti sono sold out (l’evento verrà replicato, tutte le informazioni su www.iccentrostoricomoncalieri.edu.it/).
«Non possiamo permetterci di perdere neanche un cervello», continua Fantino, per questo chiede a privati e imprenditori di investire nella formazione di questi talenti. Eppure, i numeri dicono che le loro carriere scolastiche non sono sempre fortunate: «Sono molte le difficoltà evolutive di un piccolo ad alto potenziale, la scuola italiana non riconosce questi ragazzi, l’unica logica in cui li inserisce è la competizione. Devono eccellere in tutto, ma ci sono materie che si rifiutano di affrontare. Hanno problemi di autostima perché magari a 5 anni sanno leggere e scrivere, ma non riescono ad allacciarsi una scarpa. Molti abbandonano gli studi, anche precocemente», spiega Maria Assunta Zanetti, docente di Psicologia dell’età evolutiva a Pavia e fondatrice del LabTalento, primo laboratorio italiano di Ricerca sulla Plusdotazione. C’è l’alunna che ha 10 in matematica ma ha sviluppato un tratto depressivo, c’è l’alunno che non sta seduto e picchia i compagni. L’inclusione è complessa, ma è un vantaggio per tutti: «L’errore più grande è mortificarli – dice Zanetti -. Abbiamo notato che, quando imparano a condividere il loro sapere, la performance di tutta la classe migliora».