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 2020  novembre 19 Giovedì calendario

Il diritto di esprimersi con cadenza dialettale

Quando gli hanno detto che, con qualche sacrificio, sarebbe anche potuto guarire, il francese Christophe Euzet, docente di Diritto Pubblico, deputato di En Marche, oggi nel gruppo dissidente Agir Ensemble, non ci ha visto più e ha cominciato la sua battaglia: no, nella patria dei diritti umani, non può essere tollerato che nel 2020 non venga ancora riconosciuto il diritto di parlare con un’inflessione dialettale. Perché la malattia che molti rimproverano a Euzet è proprio quella: il suo accento di Perpignan, dove è nato, cresciuto, dove ha studiato, dove insegna all’università e dove è stato eletto al Parlamento della Repubblica; quell’andatura musicale, le i che diventano ing, l’accento che torna su tutte le sillabe che ai parigini più gentili ricorda un raggio di sole e ai più nervosi una cantilena parecchio burina.
LO STANDARD
Scontento sia del raggio di sole, sia del burino Euzet è riuscito ieri a far approvare dall’Assemblée Nationale una legge contro la glottofobia ovvero contro la discriminazione di chi parla in dialetto, o con un accento regionale, in nome di un presunto standard che in Francia ça va sans dire è il parigino. La legge non poteva arrivare in un momento migliore: a capo del governo si trova infatti l’Occitano doc Jean Castex, il cui accento del sud-ovest ha fatto dire all’ex ministra Nadine Morano: «Quando parla mi sembra di stare in vacanza» e all’ex premier che gli ha ceduto il posto, Edouard Philippe: «Ha un accento enorme, ma è molto competente».

L’IDENTIFICAZIONE
La legge anti-glottofobia (per la promozione di tutti i dialetti, come precisa il testo) fatta approvare da Euzet non è, come potrebbe sembrare, un fatto aneddotico o una boutade legislativa. «Non voglio fare la rivoluzione né lanciare una crociata contro il parigino ha tenuto a precisare il deputato meridionale, che sui social è stato investito da una valanga di commenti, non sempre simpatici nei suoi confronti, e spesso ferocemente critici del suo accento ma voglio aprire un dibattito nella società. Alle persone che parlano con un’inflessione dialettale è chiuso lo spazio dell’espressione pubblica. Il risultato è che molte persone hanno sempre più difficoltà a identificarsi col discorso pubblico, quello della lingua e dell’accento delle classi dominanti».
Secondo uno studio di Ifop di gennaio, il 16 per cento dei francesi dichiara di aver subito discriminazioni a causa dell’accento, in particolare in ambito lavorativo. A un colloquio di lavoro il parigino (che pure ha un’intonazione forte, con le sue finali di parole strascinate in una spocchiosa eeeeeh) sarà comunque favorito rispetto a un meridionale che canta o a un settentrionale che gorgheggia sulle chti. D’ora in poi questa discriminazione, se provata, sarà punita dalla legge come sono punite la xenofobia o l’omofobia. Per il linguista Philippe Blanchet, che nel 2016 ha teorizzato e studiato la glottofobia in Francia, la legge era indispensabile: «Ho raccolto testimonianze di gente che ammette di non assumere qualcuno che ha un accento. In Francia, sono milioni le persone che non possono accedere a un posto, o che si autocensurano, perché si dicono che non parlano come si dovrebbe».

LA RIVOLTA DEI GUTTURALI
Un problema non solo francese: nel Regno Unito, per esempio, c’è stata di recente una rivolta dei gutturali settentrionali che si giudicano discriminati nella City di Londra, ma anche in tv o a teatro. L’attrice Maxine Peake, si è fatta portavoce (con il suo accento di Bolton, vicino a Manchester) delle discriminazioni di cui sono vittime gli attori del Nord, spesso relegati, come in Downtown Abbey, al ruolo di servitori.
L’INDIFFERENZAE in Italia? Siamo un paese di cattivi glottofobi o di discriminati perché parlanti il ciociaro, il pugliese o il molisano? «No risponde molto chiaramente il linguista Luca Serianni la storia linguistica dell’Italia è molto diversa da quella francese, nessun dialetto si è imposto come il parigino in Francia, nemmeno il fiorentino». Questo significa più tolleranza, se non spesso indifferenza, alle calate dialettali: servono ai comici per fare le imitazioni, certo, ma non ai cacciatori di teste per decidere se assumere o meno un manager. Su questo, Maurizia Villa, di Korn Ferry a Milano, è perentoria: «Da noi non esiste. Mai venuto in mente che si possa discriminare un manager del sud perché ha un accento napoletano. Contano solo le competenze. I miei clienti non lo prendono nemmeno in considerazione. Una legge contro la glottofobia? Mai sentita una cosa più idiota».
Persino lo standard meraviglioso che profferiva Nicoletta Orsomando, regina delle annunciatrici Rai, ormai non è più legge. Le inflessioni dialettali sono state sdoganate dalla tv (che nel dopoguerra fu invece veicolo di unificazione anche linguistica) e vengono esibite anche con un certo orgoglio da giornalisti e conduttori. «L’inflessione può essere oggetto di satira, ma non di discriminazione sociale», dice Serianni. D’altra parte, il milanese non ha impedito il successo di Berlusconi, il romano quello di Andreotti e il fiorentino quello (seppur più effimero) di Renzi. Senza contare il nuscano di De Mita o il molisano di Di Pietro: una varietà locutoria impensabile in Francia.

I VERTICI
Se i glottofobi in Italia non esistono, o comunque non sono in grado di nuocere, una forte cadenza dialettale non è comunque sempre un fatto senza importanza. «Per i posti non apicali, in aziende medio-piccole, parlare con un forte accento può essere un problema ammette Giovani Bertini, di Eurosearch Consultants Ma naturalmente dipende anche dalla funzione; diciamo che se uno aspira a diventare direttore della comunicazione di un’azienda, è meglio che non abbia una forte cadenza dialettale. Ai livelli alti, contano solo le competenze. E poi diciamolo: è difficile che un top manager parli in dialetto. In genere gli studi e il percorso professionale, spesso all’estero, tendono ad attenuare gli accenti».