Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2020
Che cosa succede in Etiopia
Il colpo potrebbe essere durissimo. Perché dove non ci era riuscita la pandemia di Covid 19, una guerra civile oggi potrebbe riportare l’Etiopia, il Paese della rinascita africana, indietro di molti anni.
I problemi c’erano sempre stati. Ma questo gigante dai piedi di argilla, il secondo Paese più popoloso dell’Africa subshariana, abitato da 110 milioni di abitanti divisi in almeno 80 etnie (alcune delle quali in conflitto da decenni), aveva intrapreso un cammino virtuoso, dando il via a una formidabile crescita economica. Certo, si trattava di una crescita anomala, guidata da giganteschi investimenti infrastrutturali governativi. Dal 2004 al 2014 il Pil si era attestato ad un tasso medio di aumento dell’11% per poi crescere comunque quasi a due cifre anche negli anni successivi. E per quanto fosse duro il colpo inflitto dalla pandemia nel 2019-2020 la crescita doveva comunque assestarsi sopra il 6 per cento. I grandi progressi sul fronte della lotta alla povertà, le energie verdi e le politiche sul fronte ambientale avevano fatto di questo Paese, la cui capitale ospita i quartieri generali dell’Unione africana, una sorta di laboratorio modello.
Anche sul fronte della politica estera, dove i militari di Addis Abeba, inquadrati nelle forze dell’Unione Africana erano riuscita a riportare un embrione di stabilità nella tormentata Somalia. Non è passato neanche un anno da quando, nel dicembre del 2019, un giovane capo di Governo africano, Abiy Ahmed, 43 anni, veniva insignito a Stoccolma del prestigioso premio Nobel per la pace. La motivazione? Aver messo fine ad un conflitto congelato, quello con la vicina Eritrea, che durava da oltre 20 anni. E che in soli due anni, tra il 1998 ed il 2000 aveva mietuto 100mila vite in una guerra di trincea senza vinti né vincitori.
Ma Abiy aveva fatto molto di più. Salito al potere grazie alla “spinta” della sua grande tribù, il gruppo etnico Oromo, (che rappresenta quasi un terzo degli etiopi), e del partito di maggioranza di cui ne è espressione, aveva dato il via ad una serie di grandi riforme sociali, politiche ed economiche. Che ruotavano intorno all’asse della centralizzazione. In poco più di un anno Abiy cercò di promuovere la riconciliazione, la solidarietà, la giustizia sociale. Voleva un Paese che si scrollasse di dosso il sanguinoso passato, quello della brutale giunta marxista, il Derg (caduta nel 1991 per mano soprattutto dei Tigrini), ma anche i quasi tre decenni di quel regime oscurantista, travestito da democrazia, che seguirono (ed in cui i Tigrini del partito Tplf occupavano tutte o quasi le poltrone strategiche). Gli ci vollero solo pochi mesi per rimuovere lo stato di emergenza. Pochi mesi per liberare migliaia di prigionieri politici. Pochi mesi per riallacciare i rapporti con gli esuli. E ancora meno per liberalizzare la stampa e, garantire libertà d’espressione. Perfino a legalizzare diversi gruppi di opposizione precedentemente criminalizzati.
Abiymania. Così gli etiopi battezzarono quello che ai loro occhi poteva essere l’inizio di una “perestrojka africana” in cui il nuovo leader aveva promesso elezioni libere già nel 2020 (voto poi rinviato a causa della pandemia di Covid 19).
Ma in nessun posto, ancor meno in Africa, si può immaginare una transizione di successo, e indolore, nel volgere di pochi mesi. Tanto meno nella tormentata Etiopia, afflitta da croniche rivalità etniche. Le spinte centrifughe che da decenni minacciavano il potere centrale erano sempre state stroncate sul nascere. Lo avevano sempre fatto il Negus, la giunta marxista, o il premier, e poi presidente, Meles Zenawi, alleato dei tigrini e morto per “infezione” nel 2012 dopo aver governato per 21 anni.
Sull’onda dell’entusiasmo suscitato dall’Abiymania, poche persone tuttavia si resero conto che il cammino della nuova Etiopia portava con se è i prodromi di una nuova guerra. Insomma, con la sua politica liberale e liberista, il premio Nobel per la pace apriva un vaso di Pandora. Lasciando campo libero alle rivalità etniche. In poche settimane i media, inebriati da una libertà che non avevano mai conosciuto, proliferarono. Alcuni inneggiavano alla violenza contro altre etnie. Altri alla secessione del loro gruppo etnico. Ogni grande milizia si armò per non esser impreparata. La conta delle violenze inter-etniche nel 2019 è impressionante. Era un campanello d’allarme di cui bisognava tener conto. E di cui è stato tenuto conto troppo poco. La stessa Costituzione entrata in vigore nel 1995 rappresentava un ostacolo ai disegni del premier. La Carta creava infatti nove regioni etniche semi autonome. Non solo. Concedeva a più di 80 gruppi etnici riconosciuti il diritto di creare una propria regione o addirittura la possibilità di percorrere il camminino che porta alla secessione.
Una volta avuta mano libera le tante anime separatiste presenti nel Paese hanno rialzato la testa. Primi fra tutti i tigrini. Estromessi dal potere da parte di Abiy, in diverse occasioni anche in modo brutale, sognavano la secessione da Addis Abeba. E quando si cerca un pretesto, trovarlo non è mai difficile. Il casus belli furono le elezioni regionali tenutesi in settembre. Bollate come illegittime dal Governo federale di Addis Abeba. Il quale, avevano ribattuto i tigrini, non aveva autorità per delegittimarle.
Il 4 novembre, quando i riflettori dei media internazionali erano puntati sulle presidenziali negli Stati Uniti, il premier Abiy Ahmed ha ordinato una rappresaglia contro le forze tigrine, accusate di aver prima attaccato delle postazioni dell’esercito federale. La guerra dunque ha ha avuto inizio.
Abiy continua a tranquillizzare il mondo. Ai suoi occhi si tratta di un’operazione interna, presumibilmente rapida contro un’insurrezione armata. Ed è per questo che si ostina a rifiutare ogni mediazione, che provenga da capi di Stato africani, o da Paesi occidentali. Ma gli avversari di Abiy, e diversi osservatori internazionali, non hanno comunque gradito la deriva in parte autoritaria assunta dal neo premio Nobel per la pace per fronteggiare l’emergenza; arresti arbitrari, limitazioni alla stampa, oscuramento della Rete.
I fatti, ed i precedenti, tuttavia non suggeriscono una vittoria lampo. I tigrini possono contare su di una milizia ben addestrata e armata di quasi 200mila uomini. Tanti quanti l’esercito federale. Ma vi è un altro elemento che fa propendere per un conflitto più lungo e difficile del previsto. Nel nord dell’Etiopia, proprio nella regione del Tigrai, è stanziata il Northern command, la parte più armata e addestrata dell’esercito federale. Molti dei suoi quadri sono composti da tigrini. Difficile che si rivoltino contro la popolazione tigrina.
Nonostante le rassicurazioni di Abiy questo conflitto finora contenuto rischia di degenerare in una guerra regionale. I missili lanciati lunedì dal Tplf contro l’aeroporto di Asmara (azione condannata dagli Stati Uniti) rispondono alla chiara intenzione di internazionalizzare il conflitto. Il Sudan, per conto suo, si sta preparando ad accogliere 200mila rifugiati (ne sono già arrivati 40mila), ma non vuole esser risucchiato in un nuovo conflitto senza far nulla. Nel mentre stanno venendo alla luce gravi atrocità contro civili inermi, che i due belligeranti si rinfacciano a vicenda. L’Onu ha già avvertito di un’imminente crisi umanitaria
Ci sono ancora tanti motivi per salvare il Paese della rinascita africa, ormai pericolosamente sul baratro. Ma occorre fare in fretta. Prima che le fiamme divampino in altre parti del Paese. E portino ad una pericolosa balcanizzazione del Corno d’Africa.