La Stampa, 18 novembre 2020
Rashford e il club del libro
Adesso Marcus Rashford mette proprio paura. Attaccante del Manchester United, 23 anni, un Europeo e un Mondiale per l’Inghilterra con vari record di precocità, uno scontro, vinto, contro Boris Johnson sui pasti scolastici e ora un «invito a leggere per sentirsi liberi». L’identikit del rivoluzionario che infatti inizia a dare fastidio. Mentre piace sempre di più.
Rashford non ha paura di usare il pallone per la politica ed è deciso a portare libri a chi non può permetterseli: «Io ho cominciato a leggere solo a 17 anni e mi ha cambiato la testa e la vita». A 17 anni, secondo quasi i tutti canoni considerabili, la vita gli era già cambiata eccome. Stava allo United, dentro una rosa di eletti sotto osservazione per passare alla prima squadra dove sarebbe arrivato giusto la stagione successiva eppure Rashford parla come se tutta quella travolgente ascesa nel calcio che conta non fosse abbastanza senza «le pagine che mi hanno portato altrove». Di più, si chiede «perché una via di uscita simile debba essere concessa solo ad alcuni» e «come mai non ci siano abbastanza trame che diano il giusto riconoscimento alle figure femminili». Così passa dal cibo alle lettere e si impegna, con l’aiuto di un giornalista e uno psicologo, a fare della sua stessa esperienza un romanzo di formazione per ragazzini. E la protagonista sarà la madre che lo ha cresciuto con poco per accompagnarlo al massimo.
C’è chi lo scredita
L’idea è di scrivere un racconto all’anno e foraggiare tutte le storie per bambini e adolescenti che può: «Ci sono almeno 400 mila giovanissimi nel Regno Unito che non hanno mai preso in mano un libro, certi racconti avrebbero potuto aiutarmi se li avessi avuti a disposizione nei momenti difficili». Ci pensa lui, proprio come ha fatto per i buoni mensa, con un attivismo che parte dai suoi social e si muove con l’insistenza sfoggiata davanti ai conservatori. Quasi un superpotere, infatti Burberry, che lo ha voluto come testimonial e lo accompagna in molte campagne, nelle pubblicità gli ha messo il mantello addosso.
Rashford sa smarcarsi bene. Viene travolto da ondate di affetto che trascendono il tifo, salutato da murales giganti nella sua Manchester e anche messo in mezzo. Qualche tabloid gli ha rinfacciato le proprietà da 2 milioni di dollari, lo hanno bersagliato perché ha trasformato il nome in marchio e lo ha depositato. Non costringi il primo ministro a un’imbarazzante inversione di marcia senza conseguenze. Ma Rashford non deve giustificare i guadagni, non contraddicono le scelte, solo che il suo essere così radicale spiazza. È un ventenne, nero, nato povero, rappresenta le minoranze ma in un modo nuovo perché non si occupa di slogan antirazzismo ma di classe lavoratrice, mette le mani nel sociale prima ancora di vincere, aumenta la sua popolarità con una carriera che non si ferma al campo. Un campo che sognava fin dagli 8 anni, quando giocava nel parco con la maglia di Rooney. Ora il numero nove in nazionale lo indossa lui e insieme a quello pure il ruolo di piantagrane per chi non si aspettava un giocatore caparbio alla guida di un movimento. Potrebbe spostare voti se lo volesse e per questo tentano di screditarlo. Un parlamentare lo ha accusato: «Ci saranno finanze da sottrarre ad altre destinazioni per le richieste sulle mense scolastiche», lui lo ha zittito: «Forse dovrebbe spiegarlo alle famiglie che si trovano senza pranzo per i figli, non via twitter». Regge gli attacchi, i messaggi di chi lo rimprovera di non essere determinante in un Manchester che ha ancora la luce spenta. La sua luce è accesa, c’è un’Inghilterra che tifa solo per lui. E un mondo, sorpreso, che lo applaude.