La Stampa, 17 novembre 2020
3QQAFA10 Intervista a Mario Vargas Llosa
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Una fake news. Una delle prime della storia del Novecento, «certamente quella che ha segnato di più le vicende dell’America Latina fino ad oggi. Ma anche, ammettiamolo, la prima di una lunga serie che ha invaso l’Occidente». Mario Vargas Llosa, Nobel per la letteratura nel 2010, presenta oggi al Circolo dei Lettori di Torino, insieme con Ernesto Franco, il suo nuovo romanzo: Tempi duri. Intellettuale «engagé», «come dicono i miei amici francesi» (castrista in gioventù, liberldemocratico oggi), Vargas ragiona sulla cultura e la politica nell’epoca della pandemia. E boccia sia Trump sia papa Francesco.
Tempi duri è la citazione di una lettera di Santa Teresa d’Avila. Come usciremo da questi tempi?
«Credo che potremmo uscirne meglio. Spero che il mondo nuovo, quello che verrà dopo la fine dell’epidemia, sarà migliore. Forse più povero di quello che abbiamo conosciuto fino ad oggi, ma più attento, meno arrogante nei confronti della natura».
L’epidemia come esperienza formativa?
«Forse sì. In fondo dobbiamo riconoscerlo: ci ha colti impreparati. E’ rimasta spiazzata soprattutto l’Europa. Impareremo molte cose sul piano medico e anche su quello dei comportamenti».
Qual è invece l’insegnamento che viene dal suo romanzo?
«Che si possono costruire storie totalmente false sulla pelle di un popolo per far prevalere un interesse privato. Così accadde nel 1954 in Guatemala, con il colpo di Stato che fece cadere il governo riformista di Arbenz per mettere al suo posto un dittatore gradito alla Cia e alla United Fruit».
Quale fu la fake news?
«Dissero che Arbenz era un comunista al servizio dell’Urss».
Non era vero?
«Niente di più falso. Era un militare che sognava di rendere il suo Paese più moderno e aveva un mito: gli Stati Uniti».
Perché inventare quella frottola?
«Perché Arbenz voleva dare le terre incolte ai contadini e istituire i sindacati».
L’inventore della fake news fu Edward Bernays, nipote di Freud, oggi considerato uno dei fondatori della propaganda politica. Chi sono oggi i suoi eredi?
«Oh moltissimi. Oggi il mondo è pieno di persone che inventano una realtà che non esiste a fini politici».
Perché lei pensa che quella bugia di metà Novecento sia stata tanto rilevante?
«Perché la caduta di Arbenz disse a tutta l’America Latina che la strada delle riforme non era possibile e che per difendere i loro interessi le grandi compagnie appoggiate dagli Stati Uniti preferivano una miriade di Stati governati da dittature militari. Così chi voleva cambiare le cose non aveva altra scelta che abbracciare la rivoluzione. E la rivoluzione di Castro divenne presto la rivoluzione dell’Urss».
Anche lei in gioventù abbracciò la rivoluzione di Castro. Come mai cambiò idea?
«Ho visitato Cuba cinque volte negli Anni 60. E mi sono accorto che lentamente il castrismo cambiava pelle. Quando Castro pronunciò la sua autodifesa nel processo per l’assalto alla caserma Moncada non fece un discorso comunista o filosovietico. Rivendicò il diritto di un popolo a ribellarsi a una dittatura. Ma quell’anno le cose erano già compromesse. Del golpe del ’54 in Guatemala era stato testimone anche Ernesto Che Guevara. Per questo dico che quella storia ha avuto un’enorme influenza sulle vicende dell’America Latina».
Che cosa è cambiato a settant’anni di distanza?
«In questi giorni in Perù stanno accadendo fatti molto gravi. Devo dire però che in generale l’epoca delle dittature militari è finita. Ci sono dittature ideologiche, come in Venezuela o a Cuba. Ma nella maggior parte dei Paesi si svolgono elezioni democratiche».
Il romanzo aggiunge l’invenzione letteraria alla realtà storica. E ruota intorno a due donne: Maria Vilanova, moglie del presidente riformatore, e Martita Borrero Parra, amante del dittatore Castillo Armas. Lo schema è sempre lo stesso dai tempi dell’Iliade: gli uomini combattono e le donne governano le strategie dalle retrovie?
«Beh, in effetti succede spesso. Soprattutto in una società machista com’era quella sudamericana del Novecento».
E’ ancora così oggi?
«No. Oggi anche nell’America Latina il movimento delle donne ha avuto una grande influenza, ha portato significativi cambiamenti nella società. Diciamo che oggi le donne non vengono più relegate nelle retrovie».
E il ruolo degli intellettuali com’è cambiato? La letteratura deve descrivere o deve intervenire? Proust o Sartre, per rimanere in Francia?
«Non concordo con molte cose scritte da Sartre ma mi ritrovo nell’ispirazione degli esistenzialisti francesi, nell’idea che l’intellettuale deve parlare alla società. La letteratura può essere uno strumento di cambiamento molto importante».
Tempo fa lei ha detto che non si augurava la vittoria di Trump alle elezioni. Ora ha vinto Biden ma la situazione non è ancora assestata. Come giudica questa fase della storia degli Stati Uniti?
«Penso che alla fine Trump cederà. E credo anche che la sua sia una parabola destinata a concludersi. Non ritengo che la sua esperienza si trasformerà in un movimento di rilievo. Alla fine si passerà a Biden e di Trump tra qualche anno non sentiremo più parlare».
Se invece continuasse il braccio di ferro, avremmo uno scenario sudamericano a Washington?
«Ah ah. Non credo proprio che si arriverà a quel punto».
La personalità più rilevante del Sud America è oggi papa Francesco. Qual è il suo giudizio su di lui?
«Papa Francesco è un peronista. Per molti latinoamericani come me è un Papa che favorisce l’estrema sinistra».
Non le sembra anche questa una fake news, un Papa di estrema sinistra?
«Siamo in molti a pensarla in questo modo. Oggi la Chiesa cattolica non ha più l’influenza di un tempo e non credo che questo Papa inciderà molto. Penso che l’esperienza di un Papa peronista sarà passeggera e che, dopo, la Chiesa recupererà la sua vera tradizione conservatrice».