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 2020  novembre 16 Lunedì calendario

Claudio Galzerano, un italiano all’antiterrorismo Ue

Dal 1° dicembre sarà un poliziotto italiano a guidare la struttura antiterrorismo delle polizie europee: Claudio Galzerano, 57 anni, fino a oggi alla guida del Servizio per il contrasto all’estremismo di matrice internazionale della Polizia di prevenzione, è stato nominato nuovo capo del Centro europeo antiterrorismo di Europol. Un riconoscimento alla specializzazione e al metodo di lavoro sviluppati dall’Italia in questo particolare settore delle investigazioni, che Galzerano – scelto dal direttore esecutivo Catherine De Bolle al termine di una selezione molto dura, tra candidati dei principali Paesi Ue – porterà nel teatro europeo.
«Oltre alla quantità è importante la qualità delle informazioni raccolte – spiega —, che si realizza attraverso un’efficace sinergia tra l’intelligence e le forze di polizia, che da noi abbiamo realizzato con il Comitato di analisi strategica. A livello europeo è un po’ più complicato».
Perché?
«Perché dai governi arriva una forte spinta al dialogo, mentre sul piano concreto ci si scontra con la sovranità dei singoli Paesi e si fa ancora fatica a condividere le informazioni. Occorre superare gelosie e diffidenze che non ci possiamo più permettere, perché nessuno Stato può considerarsi un’isola immune dal rischio. Purtroppo però ancora oggi è più facile una collaborazione bilaterale che multilaterale».
Per questo, qualche giorno fa, Francia, Austria e Germania si sono incontrate escludendo l’Italia?
«Non credo, quello era un vertice tra i Paesi colpiti dai più recenti attentati, a Nizza e a Vienna, e la Germania è presidente di turno dell’Ue. L’Italia ha concorso e concorre moltissimo alla definizione delle politiche e delle metodologie d’indagine antiterrorismo europee; a suo tempo l’ex ministro dell’Interno e primo ministro francese Manuel Valls venne nei nostri uffici per apprendere la nostra organizzazione».
Qual è il ruolo di Europol e della struttura che lei dirigerà nella situazione attuale?
«A parte la messa a fattore comune dei dati di cui dispongono le singole strutture di polizia e di intelligence, per valutarle e rimetterle a disposizione di chi opera nei diversi Paesi, sarà importante – ad esempio – per ottenere la cancellazione dei contenuti online di propaganda terroristica. È una contromisura importantissima, un cancro da estirpare al più presto prima che si sviluppino le metastasi, ma solo attraverso Europol si può interloquire con i giganti di Internet (Google, Facebook e gli altri) per la rimozione immediata».
La frontiera del web è essenziale per la prevenzione?
«Certo, soprattutto in un momento in cui la pandemia ha confinato tutti Internet continua a fare da detonatore. Ci sono chat e room, nascoste nel cosiddetto deep web, dove si incita alla violenza e alla rivolta, si insegna a costruire ordigni e si indicano obiettivi. Soprattutto dopo le restrizioni e i maggiori controlli attivati nei luoghi di culto, la Rete è diventata la principale risorsa delle organizzazioni islamiste radicali; per il reclutamento come per i finanziamenti, attraverso il sistema delle criptovalute. Anche qui le risposte passano dalla specializzazione e dalla cooperazione tra Stati».
I controlli sulle moschee sono ancora importanti?
«Sì, perché la prevenzione passa anzitutto dal controllo del territorio. E la predicazione di tipo tradizionale continua ad essere una forma di trasmissione del virus; la drammatica decapitazione del professor Paty, in Francia, è stata preceduta da una campagna d’odio che ha fatto breccia in pochissimo tempo nella personalità influenzabile del diciottenne ceceno che ha ucciso. Però le moschee e le comunità islamiche non vanno demonizzate, sono nostri interlocutori e rappresentano un alleato importante nella lotta al terrorismo».
Che cosa insegnano gli attentati di Nizza e di Vienna?
«L’attacco di Nizza ci ricorda che va esplorato il rapporto tra immigrazione e terrorismo, con la conseguente necessità di aumentare i controlli attraverso un’attività che deve per forza coinvolgere i Paesi di provenienza. Serve uno scambio di informazioni di qualità: Brahim Aouissaoui non era stato segnalato dalla Tunisia e stiamo cercando di capire se c’erano elementi perché venisse attenzionato. Dietro l’attentato di Vienna invece c’è una storia di mancata integrazione».
In che senso?
«A uccidere in quel caso è stato un cittadino austriaco già arrestato come aspirante combattente in Siria, successivamente rilasciato. Ma è rimasto un estremista in grado di colpire. La deradicalizzazione è un altro punto centrale della lotta al terrorismo che non può essere lasciato all’improvvisazione, ad iniziative spontanee e alle sole forze di polizia».
Come può Europol contribuire al controllo delle frontiere italiane?
«In Italia e in Grecia ci sono già, negli hotspot dove vengono raccolti gli immigrati irregolari, i guest officer di Europol che controllano gli indicatori di pericolosità sulle persone che arrivano, grazie alle banche dati. Significa che a livello di polizia il problema dell’immigrazione è visto come un problema europeo, che riguarda tutta l’Ue e non solo i Paesi in cui avvengono gli sbarchi. Poi il problema sono i rimpatri. Bisogna accelerare e rendere più fluide le procedure delle espulsioni, e ancora una volta diventa fondamentale la collaborazione con i Paesi di provenienza. Che non è semplice, soprattutto con la crisi economica acuita dalla pandemia che provoca nuove ondate migratorie. Ma è indispensabile».