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 2020  novembre 16 Lunedì calendario

Silvio D’Arzo, l’autore segreto è tornato

Silvio D’Arzo è uno dei moltissimi pseudonimi immaginati da Ezio Comparoni. Era nato a Reggio Emilia nel 1920, figlio di una ragazza madre. Rimpianse sempre quel padre irreale: quel padre non posseduto, e che desiderava moltissimo. Era povero, ma frequentò l’Università di Bologna, dove si laureò (stranamente) in glottologia. L’8 settembre 1943, a ventitré anni, fuggì da Barletta, dove era prigioniero: gettò la divisa militare: attraversò l’Italia, risalì l’Adriatico, gli Abruzzi, e infine dopo cento vicissitudini tra i nazisti – lui, così leggero, così incapace di affrontare la realtà quotidiana – riuscì a tornare a Reggio Emilia, per la quale aveva una passione profonda. Era la sua città: la sua unica città: per lui non esisteva altro mondo; anche Parma gli sembrava straniera, sebbene fosse piena di conoscenti e amici, tra i quali un grande poeta, Attilio Bertolucci, che passeggiava tutti i mattini tra le colline dell’Appennino scrivendo un assoluto capolavoro, forse il testo più bello della poesia italiana moderna, La came ra da letto che tuttavia D’Arzo, morto troppo giovane, non ebbe il tempo di conoscere.
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A nove anni Silvio D’Arzo componeva versi: a quattordici esordì con un’antologia narrativa: a quindici stampò una raccolta poetica e un libro di racconti; e il suo rapporto con Emilio Cecchi e Attilio Bertolucci diventò sempre più stretto e affettuoso. Era modestissimo, umile, nascosto: ma, in fondo all’anima, possedeva ambizioni quasi smisurate, come fosse Conrad, quel bizzarro polacco-inglese a cui cercava di assomigliare. Voleva riscrivere un’altra volta L’isola del tesoro di Stevenson (come lo adorava!) e Lord Jim e Cuore di tenebra di Conrad, ripetendo le loro remotissime avventure, sebbene non fosse mai stato nei Mari del Sud.
Tornato a casa, nella sua poverissima casa, simile a un antro o a un covile, Silvio D’Arzo riprese a leggere: lesse moltissimo nella sua biblioteca povera e folta, dove si trovava tutto e nulla: sfogliava la notte e il giorno, senza arrestarsi mai; specialmente libri di letteratura inglese, che talvolta conosceva quasi come uno specialista. Dispiace che Mario Praz, per non so quale dimenticanza, non parli di lui nella sua Letteratura inglese. Forse D’Arzo, quasi ragazzo, lesse confusamente: uno dopo l’altro, passò da Walter Scott a Coleridge a Shelley a Byron al Dickens più bizzarro e stravagante, a molti altri che soltanto lui riusciva a trovare nelle biblioteche, frugando e rifrugando come un appassionato ladro di libri. Aveva un dono da veggente. Per questo ebbe un rapporto quasi filiale con uno scrittore che amava moltissimo: Emilio Cecchi, che scriveva sui quotidiani articoli sugli “scrittori inglesi e americani” del diciannovesimo e del ventesimo secolo. Credo che D’Arzo non abbia perso nemmeno uno – sebbene fosse giovanissimo – di quegli articoli felici e geniali che fecero conoscere in Italia una terra quasi completamente sconosciuta. Ma dubito che D’Arzo amasse Moby Dick di Melville, che era stato tradotto da Cesare Pavese. Moby Dick era un libro troppo smisurato per lui: schiacciava e forse avviliva la sua fantasia; e poi lui amava molto più la vicina Inghilterra – quei piccoli paesi, quelle locande, quelle chiese, quei sacerdoti – di quanto amasse la lontana America, dove si sarebbe sentito spaesato, come accadde, in quegli anni, anche a Mario Soldati.
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Più che i singoli, Silvio D’Arzo amava rappresentare la folla dei personaggi, che si accalcava, litigava, invidiava, ma rispettandosi profondamente. Ecco qui un personaggio misterioso: il Buon Maestro Morto, forse una lontana contraffazione di Cristo: ecco il noioso e verboso Supplente,L’8 settembre 1943, a 23 anni, fuggì da Barletta dove era prigioniero, gettò la divisa militare e riuscì a risalire fino a Reggio Emilia e il Maniscalco e Rosso Nick e il Sarto e Ilda Cross e il Vice Cancelliere e Ritwald e Gulfenstrom e Milesius e Anna-la-Bambina. Questi personaggi umani si perdevano tra gli animali: tra le oche, le anatre e soprattutto le rane, come se gli animali costituissero la vera essenza del mondo. Come D’Arzo scrive: «O, dovunque vada, si fermi, dorma o rida un bambino si trova sempre a casa sua. E quello, infatti, dopo aver seguito le morbide siepi di Pictaun e i bei prati di felci e i boschi in fiore, le parole dell’Anna-dei-Bambini che giungevano per l’aria fino a lui, ma sembravano nascergli dal cuore, si trovò poi, stupito e fiducioso sulle rive arenose del ruscello. E lì c’era una Rana che guardava da una foglia di vite, con le importanti ali erette, con quegli sguardi di insopportabile supponenza di chi crede di sapere tutte le cose; e in mezzo all’acqua, cento, mille pesci colore di niente, audaci e timidi».
Un mondo misterioso affianca il nostro. In cento rapporti le persone e le cose parlano lingue che sembrano comunicare nel linguaggio sfuggente e duraturo dell’analogia universale, allargandosi, balzando dal ruscello all’aria, da un ramo all’altro. Un funambolo, o l’usignolo che era Silvio D’Arzo lancia richiami da questo altrove che è e non è del nostro mondo. Molti testi sembrano inventati da un uccello, e restiamo curiosi di conoscere sempre altri inediti, come quello pubblicato ora dall’editore Einaudi, a cura di Alberto Sebastiani: Gec dell’avventura, per il quale è stato chiesto a Eraldo Affinati di inventare un finale. Questo libro è molto più bizzarro ed eccentrico di Casa d’altri, il capolavoro di D’Arzo, ma non per questo è meno bello e intenso.
Ma chi era D’Arzo? Sappiamo pochissimo di lui. Viveva segregato nella sua piccola città provinciale, dove era così difficile discorrere di letteratura. Credo che parlasse volentieri di Matteo Maria Boiardo, suo conterraneo, spesso più bello di Ludovico Ariosto, ammirando la sua fantasia romanzesca. Era modestissimo, umile, come ho detto: nato nascosto, si nascondeva ancora: possedeva in modo supremo l’arte di celarsi e quella di raggiungere l’occulto: chissà quale; ma, in fondo all’anima, come si è detto, la sua ambizione gli faceva desiderare di essere un Conrad o uno Stevenson. Forse era possibile tracciare su una nuova carta L’isola del tesoro e una specie di libro ideale, con Jim Hawkins e il capitano Flint.
Silvio D’Arzo, o Ezio Comparoni, coltivava soprattutto il Settecento, le avventure, le fantasie, le invenzioni, le bizzarrie, gli squisiti e folleggianti ricami e persino gli aneddoti di cronaca; e li corteggiò con grande grazia, come se fosse egli stesso un inglese del diciottesimo secolo, una specie di Sterne alla caccia di un impossibile e introvabile Tristram Shandy. I suoi primi libri – ma ne scrisse molti di nascosto agli amici – furono All’insegna del buon corsiero e Penny Wirton e sua madre: precocissimi, ma completamente ignorati da tutta la critica italiana. Nel 1952, quando non aveva ancora trentadue anni, morì di leucemia.
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La fortuna letteraria di D’Arzo fu dovuta soprattutto a Giorgio Bassani, appassionato cultore di scrittori, il quale stampò sulla sua bella rivista, Botteghe Oscure, uno degli assoluti capolavori della letteratura italiana moderna: Casa d’altri dell’allora sconosciutissimo Silvio D’Arzo. Non saprei quale altro racconto dei nostri tempi avvicinargli. D’Arzo non aveva rivali. Anna Banti e Roberto Longhi lo amarono e discussero a lungo di lui e con lui, avvolgendo la sua vita in una specie di aereo incantesimo. Così Casa d’altri diventò rapidamente un classico, anche per ciò che ne scrisse un grande poeta delle sue terre, Attilio Bertolucci. D’Arzo era un lettore e un critico straordinario, suscitando l’ammirazione dell’autore dell’Usignolo della Chiesa Cattolica, il libro più ispirato di Pier Paolo Pasolini.
Anche D’Arzo era un usignolo: un usignolo incomparabile e squisitissimo. Nessuno scrittore cantava come lui sotto la vastissima distesa d’alberi e d’arbusti che formava la Pianura Padana. Tutti gli arbusti erano suoi. Era macchia, pungitopo, corbezzolo – ma anche rana e serpente d’acqua. Molti testi sono cantati da un uccello misterioso: un uccello malinconico, estroso, col cuore sanguinante, purtroppo per poco, davanti al quale i nostri sguardi sono incerti e commossi. Questo nuovissimo libro, pubblicato col titolo Gec dell’avventura, qualche volta sfiora la follia, qualche volta è pura follia; ma la follia è la parte suprema della letteratura – il suo culmine, la sua vittoria, il suo trionfo finale.