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 2020  novembre 15 Domenica calendario

8QQAN40 QQAN80 Steffi Graf a colpi d’eleganza

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La bella illustrazione di Guido Scarabottolo in copertina (la riproponiamo qui) è un delizioso antipasto di quel che si leggerà: Steffi Graf con la pallina della seconda di servizio in mano, protesa a colpire di dritto con la determinazione che la contraddistingue, l’espressione seria e concentrata, il fisico scattante vestito di bianco (niente colori sgargianti, in quell’epoca del tennis). Sembra di vederla in campo, sta per fare il punto con il colpo migliore, la grinta composta, tenuta a freno come i capelli biondi raccolti nella coda di cavallo.
Il libro di Elena Marinelli racconta, descrive, interpreta tutto questo. Lo fa partendo dalle origini, dal seminterrato di casa a Mannheim (in Baden Württemberg) in cui a cinque anni Steffi giocava con papà Peter, e chiudendo con l’addio commovente al Madison Square Garden di New York, nel novembre 1999, davanti a centinaia di spettatori ancora increduli di fronte a un ritiro cui non si rassegnano. Nel mezzo ci sono 17 anni di carriera, 107 tornei vinti (il primo a nemmeno 17 anni, in South Carolina), di cui 22 del Grande Slam, alcune sconfitte cocenti.
Al di là dei numeri, quel che conta è il come. Come si è delineata la strada della campionessa tedesca, come si è pian piano scolpito il suo carattere vincente, come si è perfezionato nel tempo il suo tennis, a partire dalla battuta e dal suo punto debole (si fa per dire...il rovescio a una mano, per lo più tagliato e sempre molto basso: certo, nulla a che vedere con le fucilate di dritto).
L’autrice sceglie di farci vivere accanto a lei. Si soffre e si esulta al suo fianco, seguendo un’ascesa rapidissima, che tocca il vertice nell’annus mirabilis 1988 (Grande Slam e oro olimpico a Seul), ad appena 19 anni. Si condivide la sua tensione durante i tie-break, la fatica degli allenamenti, il peso dei giornalisti in agguato, il deterioramento del rapporto con il padre, figura che segna nel bene e nel male il suo percorso. La passione dell’autrice trasuda da ogni riga, al pari della meticolosità con cui ha ricostruito un mondo. Perché vivere accanto a Steffi Graf vuol dire anche apprezzare la grazia di Chris Evert, esaltarsi davanti alle volée di Martina Navratilova, chiedersi come andrà con l’eterna rivale Gabriela Sabatini, rimanere spiazzati dai primi urli a ogni colpo sul campo: c’è chi arriverà a protestare contro i gemiti emessi da Monica Seles, colpevoli di deconcentrare le avversarie (che, in realtà, pativano decisamente di più le sue frustate bimani, sia da destra che da sinistra). E che dire della spagnola corpulenta e senza un talento sopraffino, ma regolare e tenace come poche, alla conquista del Roland Garros (e non solo)? Arantxa Sanchez Vicario trionfa proprio contro Steffi, detentrice del titolo, nel 1989.
Si va avanti pagina dopo pagina, e si rivive un’era del tennis femminile che ci manca molto, fatta di grande classe, di varietà nel gioco, di forti personalità. Graf ha tutte queste componenti, ben illustrate da Marinelli. La forza fisica si combina con eleganza e visione strategica, al gioco da fondo alterna repentine discese a rete con cui chiude con decisione il punto, il modo di stare in campo incute rispetto, quando non timore. È rimasta memorabile, a questo proposito, la finale sulla terra rossa di Parigi dell’88 con la povera Natalia Zvereva che perde 6-0 / 6-0 in 34 minuti, accasciandosi poi sulla sedia in un mare di lacrime. Trentaquattro minuti, praticamente una non finale. Ma Steffi è anche questo, una giocatrice che non concede nulla. Che appare di una solidità granitica, inscalfibile. Parla pochissimo (non a caso il futuro marito Andre Agassi, nel presentarla alla International Hall of Fame nel 2004, dirà quasi intimidito «Hai sempre preferito l’azione alle parole»), al più alza il pugno dopo uno scambio vinto con affanno, non lascia trasparire le proprie fragilità, seguendo uno degli insegnamenti del padre: «Non farti vedere mai».
È anche grazie a questa corazza che resiste quando Peter finisce in galera per aver evaso il fisco, o quando è colta dai sensi di colpa dopo che un fanatico di Amburgo, nel 1993, accoltella alla schiena Monica Seles, “rea” di ostacolare i successi della tedesca. Il cammino di Steffi continua, pur intralciato da una serie di infortuni. E quando la fatica di una vita da un campo all’altro (e da un aereo all’altro, da un hotel all’altro) supera la soddisfazione di giocare, Graf decide di smettere e lo fa senza rimpianti.
Lo annuncia il 13 agosto 1999 sulla sua superficie eletta, quella terra dove il suo tennis si esprimeva al meglio (benché abbia vinto anche sette volte a Wimbledon, eh), e dove diventa numero uno del mondo nel 1987, posizione che mantiene per 186 settimane. Sarà per questo che nella cerimonia dell’addio, a New York, le consegnano l’anta dell’armadietto numero 19 del Roland Garros: era il suo armadietto e tale doveva rimanere, seguendola fuori di lì (ora negli spogliatoi c’è il 18 bis).
Questo libro è un omaggio a Steffi Graf e un atto d’amore per il tennis. È scritto da una tifosa e per questo, a tratti, si sente qualche eccesso enfatico. Ma pensando a quella bambina di cinque anni nel seminterrato di Mannheim, e a ciò che è stata capace di fare, lo si perdona volentieri.