Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2020
Non scherziamo su Togliatti!
Dove c’è satira c’è censura. O almeno così accadde a Franco Loi nella sua Milano degli anni Sessanta, al Piccolo Teatro, quando l’allora direttore Paolo Grassi gli bocciò un cabaret politico che avrebbe voluto far arrivare sulle scene estive di quel palco un’irriverente critica dal di dentro alla sinistra del tempo.
Un copione ad oggi mai rappresentato e completamente inedito riemerge – pur mutilato per più della metà dei 13 sketch che dovevano comporre lo spettacolo – tra le carte consegnate alla Biblioteca dell’Università Cattolica con la donazione integrale del proprio archivio personale voluta dal poeta nel 2018, nella certezza della cura che solo lì gli si poteva riservare.
Un’illuminazione inaspettata, quella che viene dalla scoperta di questi dattiloscritti, che permetterà di procedere, con una svolta ulteriore quantomeno sul fronte cronologico, alla sistematizzazione degli studi già scritti e di quelli ancora da scrivere su quella che, ad oggi, è senza alcun dubbio una delle personalità più rilevanti della nostra letteratura.
L’attività teatrale loiana è infatti antecedente a quella della sua scrittura in versi. Poeta in erba solo a 40 anni, Loi approdò alla sua «vûs fina» piuttosto tardivamente, intorno al 1970, pronto forse solo allora a lasciarsi alle spalle un decennio di delusioni incontrate negli ambienti del teatro milanese.
Eretico della forma e dell’ideologia, aveva mosso le proprie ambizioni drammaturgiche tra le storture di un mondo chiuso alla carica critica e politica dei suoi testi. Notato, poi, immediatamente dalle avanguardie teatrali del tempo, tra le quali spicca il nome del neonato gruppo Nuova Scena, aveva tentato, nel 1969, una collaborazione proprio con il suo fondatore, Dario Fo. Un incontro mancato che, tra idee indebitamente sottratte e uno spettacolo andato in fumo, lo portò a chiudere definitivamente con il teatro dopo essersi visto tacciato di fascismo, trotzkismo e anarchismo, con tanto di veto di Grassi e di Franco Parenti, per un suo testo - Op là, bandiera rossa - giudicato da tutti politicamente irrappresentabile di fronte al condizionamento delle sovvenzioni dei partiti Socialista e Comunista.
Ripetutamente ostracizzato da quella sinistra istituzionalizzata che, pur riconoscendo le qualità delle sue spinte innovative, non volle mai farle proprie – forse per il timore di uscire frustrata dalle provocazioni intellettuali di una mente così lucida – venne di fatto sempre ostacolato da una censura più subdola e meno fracassona rispetto a quella dei poteri dominanti.
Già qualche anno prima era infatti stato sempre il fuoco amico di Grassi ad impedire la diffusione proprio di quella serie di sketch satirici che è oggi possibile leggere, assieme a qualche carta infervorata di riassunto dei fatti, nei dattiloscritti da poco ritrovati: non altro che i fogli volanti con cui il giovane Loi si recava alle prove e alle discussioni del circolo di amici che, in vista di un debutto programmato per i primi di luglio, si riuniva nella casa del regista del Piccolo Virginio Puecher per preparare il proprio spettacolo.
Era il 1964 e a Milano impazzavano i locali nati sull’onda dell’imitatissimo modello del Derby e del Nebbia Club. Quei luoghi in cui la sera, tra il fumo e i soft drink, si alternavano improvvisazioni satiriche sui fatti del giorno, battute pungenti sul pubblico, e pure qualche intermezzo musicale interrotto solo verso mezzanotte da una pastasciutta gratuita servita direttamente dagli attori.
Con questa moda nell’aria, in un panorama tutto milanese che vedeva ogni canzonatura possibile fare il proprio gioco su Andreotti e su tutta la Democrazia Cristiana, fu quindi proprio Loi a convincere i compagni, tutti socialisti e comunisti, della necessità di invertire totalmente la rotta. Deluso profondamente dal primo crollo dell’ideologia marxista, ed allontanatosi dal Pci già molto prima lasciando da parte gli anni della militanza giovanile, aveva proposto una critica più a sinistra della sinistra, che non mancasse – a luci brechtianamente sempre accese – di smuovere le coscienze degli spettatori.
«Volevamo fare un lavoro di rottura», avrebbe battuto a macchina pochi giorni dopo la bocciatura: «denunciare una situazione politica, un certo malcostume, far conoscere la vita segreta di alcuni personaggi, sbloccare una situazione», e quella cioè, in particolare, degli operai che «ignorano la loro storia e la storia dei loro partiti: come dire non conoscono se stessi e gli uomini che li dirigono».
Di fronte a tutto ciò non stupisce quindi per nulla che ad essere impresso con il rosso di un inchiostro ancora vivido sull’intestazione di tutte le nove carte del più compiuto degli sketch conservati, sia proprio il cognome del leader del comunismo italiano, Palmiro Togliatti.
Vero protagonista del ritrovamento, il ritratto satirico che ne viene da questa breve scenetta, a lui interamente dedicata, è quello di un Togliatti molto satellitare che abita gli spazi di un ridicolizzante «interno borghese molto eccentrico», arredato da Loi non senza qualche influenza dalle gozzaniane ottime cose di pessimo gusto. Tra «poltrone, libreria, pesci rossi, piante esotiche, grossi amuleti e portafortuna un po’ dappertutto» su cui si staglia un «grande ritratto di Stalin alla parete» tutto è pensato per accogliere un personaggio che, sempre troppo poco a suo agio nel centro della scena – e della storia – ha tutti i caratteri di un bambinone dall’incontenibilità sciocca e superstiziosa.
Come quando, appena di ritorno a casa, con in testa un cappello d’alpino – come mai riuscì ad essere sul fronte – non attende altro che di chiedere al proprio pappagallo – di nome, si noti, Carlo Marx – che cosa dire al prossimo discorso in Parlamento, o se sarà ministro, sentendosi prontamente rispondere sempre e solo: «Tu sei il migliore, tu sei il migliore».
Tra mille gag giocate con due cameriere gobbe e due guardie del corpo “all’americana” l’ironia del testo non manca di toccare i molti fatti noti della biografia del leader – dall’amnistia del «Chi ha fatto tornare tra noi i fascisti?», all’interventismo «come Corridoni», passando pure per i «bei pranzi col Cardinale Ottaviani» e per i «bei duetti» col democristiano De Gasperi.
Una satira che negli anni di Moro e dell’apertura a sinistra avrebbe voluto fare dell’ironia proprio sulle posizioni realiste del Togliatti democratico progressivo, in quella divertentissima “canzone del pappagallo” dal Migliore recitata in uno dei momenti migliori del testo di Loi: «Ho bisogno di questo pappagallo,/– al Congresso di Livorno io non c’ero –/Ho bisogno di questo pappagallo/per conoscere la linea del mistero./Le masse attendono, i dirigenti bollono:/io solo taccio, e non so che fare./In Russia cosa pensano? che vogliono?/Fare la rivoluzione? Io vorrei aspettare./Ma da quando il Cominform è stato sciolto/non so più chi sia vivo e chi sia morto./Prima mi svegliavo come Lenin:/il cuore saldo, la parola pronta!/La luce del Cremlino non sbagliava:/la borghesia è finita, quasi morta./Ora il silenzio, ora strane voci,/le spie, i dottori, i vecchi generali:/dimmi, Carlo Marx, le cose atroci,/le cose buone, i pensier di Stalin!/Ma dimmi, soprattutto, tu, che sei puro!/cosa ci riserva il gran futuro?».