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 2020  novembre 15 Domenica calendario

Plácido Domingo racconta il suo Wagner

Avevo vent’anni quando ho ascoltato il mio primo Wagner: era a Città del Messico, nel 1961, e l’opera era La Valchiria, in una esecuzione favolosa, con la Sieglinde di Régine Crespin e il Siegmund di Jon Vickers, coppia fantastica. Ma nel cast c’era anche mia moglie Marta, che cantava la parte di Gerhilde, una delle Valchirie. L’avevo aiutata a studiare la parte, accompagnandola al pianoforte. Questo è stato l’inizio, seduto in sala, da spettatore. Poi è arrivato il mio primo ruolo sulla scena, e il destino ha voluto che fosse Lohengrin, il più romantico degli eroi wagneriani, il cavaliere del cigno, il figlio di Parsifal. Avevo l’età giusta per mettermi nei suoi abiti, perché il debutto cadeva esattamente una settimana prima del mio ventisettesimo compleanno. Fino a quella data – Amburgo, 1968, epoca di ribellioni e contestazioni – non avevo ancora messo in repertorio dei ruoli in tedesco, né mai avrei immaginato di avventurarmi in quel mondo. Passarono quindici anni per il Lohengrin successivo, che rappresentò una rinascita, una riconquista, sotto tutti i punti di vista: cantavo al Metropolitan di New York e a dirigere c’era James Levine. Poco dopo lo replicai a Vienna, con Claudio Abbado. Ma nel frattempo (era il 1976) la Deutsche Grammophon mi aveva offerto di incidere la parte di Walther von Stolzing, il giovane cavaliere, straniero, innamorato. Colui che porta la luce della nuova arte nel mondo delle antiche regole di composizione dei Maestri cantori. E ancora, nel 1989, mettevo in disco sia Tannhäuser sia L’olandese volante, entrambi con Giuseppe Sinopoli sul podio.
Questi tre ultimi titoli non li ho mai portati sul palcoscenico, ma è stato molto importante per me affrontarli in disco, perché sono stati il viatico verso due ruoli importantissimi, che desideravo tanto presentare in scena: Parsifal e Siegmund. Infatti nel 1991 debuttai in Parsifal, con una tripletta notevole: a marzo al Metropolitan, a settembre a Vienna e a Sant’Ambrogio addirittura alla Scala, diretto da Riccardo Muti. Ma il massimo della soddisfazione per un cantante non di madrelingua tedesca l’ho avuta nell’estate del 1993, quando mi hanno invitato a interpretare Parsifal al Festival di Bayreuth. Lì mi sono sentito nel tempio, nel teatro che consacra al compositore. Dopo di che ho avuto un’altra esperienza unica: Parsifal in concerto a Ravello, diretto da Valery Gergiev (un mese prima lo aveva presentato per la prima volta nella storia a San Pietroburgo) nell’incanto di Villa Rufolo. In quei luoghi Wagner aveva trovato ispirazione per il magico giardino di Klingsor. E lì Tony Palmer – in collaborazione con la Rai – ha voluto ricreare con una sorta di documentario il viaggio all’interno di una delle leggende più celebri: la ricerca del sacro Graal.
Siegmund è stato un ruolo che mi ha accompagnato per anni: l’eroe ingenuo, inconsapevole, in fuga, che non sa nulla di sé e del mondo. È il vero centro della Valchiria, dove ho debuttato nel 1992, e che poi ho replicato per l’inaugurazione della stagione 1994/95 della Scala, diretto da Riccardo Muti, che portava allora tutto il Ring alla Scala. Mi restava ancora un sogno wagneriano, che coltivavo da anni: affrontare Tristan und Isolde. E il desiderio si è avverato, con Antonio Pappano: ci sono voluti ben due mesi per inciderlo, tra il 2004 e il 2005. Pensare che molti anni prima avevo detto alla grandissima Birgit Nilsson che mi sarebbe piaciuto cantare Tristan con lei, ottenendo questa risposta: «Sbrigati!», perché era vicina alla fine della carriera. Peccato. Io allora non avevo la vocalità adatta per affrontarlo sulla scena, sarebbe stato un errore fatale. Ma per consolarmi del mancato incontro ho un delizioso aneddoto: una volta chiesero alla Nilsson come faceva a cantare Isolde quando si trovava in coppia con un Tristano poco attraente e lei aveva detto: «Oh, chiudo gli occhi e penso a Plácido Domingo».
A un certo punto della carriera è stato decisivo indossare i panni dello Heldentenor, il tenore eroico wagneriano. Sentivo che la voce gli si adattava bene, vestiva perfetta alcuni di quei ruoli perché aveva facilità a sfumature baritonali. Ma mi sono sempre saputo dosare, perché cantare Wagner può diventare anche pericoloso per la voce. Le sue opere sono sempre una lunga e faticosa maratona. E così ho studiato anche il tedesco, e l’unica cosa di cui mi pento è di non parlarlo, perché quando sono arrivato ad Amburgo erano i tempi di Rolf Liebermann, compositore e avveniristico manager, alla guida dell’Opera dal 1959 al 1973 (e poi ancora dal 1985 al 1988) e gli artisti che invitava venivano per lo più dagli Stati Uniti, perciò si parlava inglese. Ma sia per il tedesco come per il russo ho lavorato sempre con grande disciplina e i risultati sono stati molto buoni. E soprattutto ho incontrato colleghi straordinari: innanzitutto, i direttori. Accanto a quelli che ho già citato, devo ricordare Sir Georg Solti, con cui ho inciso il Lohengrin (e avevo accanto la stupenda Jessye Norman) e poi Daniel Barenboim, che mi ha diretto sia in Parsifal che in Valchiria, a Berlino. I grandi interpreti formano un elenco incredibile, da Dietrich Fischer-Dieskau, che ho incontrato solo in sala di registrazione, a Waltraud Meier, che ho avuto accanto in tante e tante recite sul palcoscenico, e che è stata la mia Kundry a Bayreuth e poi a Vienna, dove è stata anche la mia Sieglinde, al mio debutto viennese in Valchiria, e poi anche alla Scala. Ma per finire questo album dei ricordi mi piace citare un particolare: nel mio Parsifal a Ravello, del 1997, tenevo a battesimo tra le fanciulle fiore niente meno che Anna Netrebko, sconosciuta 26enne; mentre Kundry era Violeta Urmana, anche lei molto giovane e con cui una decina di anni dopo ho inciso Tristan. Un’altra mia Sieglinde è stata Anja Kampe, una delle vincitrici di Operalia. E non dimentichiamo i Gurnemanz fantastici di Matti Salminen e René Pape.
Ma voglio ancora citare uno degli interpreti più impressionanti di Lohengrin che ho avuto la fortuna di ascoltare, dal vivo, al Metropolitan: il tenore ungherese Sándor Kónya.
Certo, fino a pochi decenni fa Wagner non veniva presentato in tedesco, al di fuori dei Paesi di lingua tedesca. Quando ero ragazzo, in generale le opere si cantavano nella lingua del Paese, se non addirittura in quella personale del cantante. Arrivando così a situazioni paradossali, a volte anche molto divertenti, con bizzarri collage, dove magari un duetto d’amore avveniva in lingue diverse. E questo succedeva non solo con Wagner, ma anche con La Traviata di Verdi o con la Carmen di Bizet. Oggi sarebbe inimmaginabile. Siamo privilegiati nel poter ascoltare l’opera nella lingua in cui il compositore l’ha scritta perché ogni parola in Wagner ha un legame intimo con il fluire della sua musica. Poi possiamo disporre dei sottotitoli con le traduzioni, che aiutano il pubblico a restare sempre in sintonia con quanto accade sul palcoscenico. Ciò costringe ancora di più noi cantanti a essere credibili, come interpreti, perché lo spettatore vuole credibilità teatrale. Anche se a volte nelle regie contemporanee capitano imprevisti: a Bayreuth, due estati fa, dirigevo la Valchiria e a un certo punto nel corso dell’opera sento dei suoni strani, ma che non venivano né dall’orchestra, né dai cantanti... erano dei tacchini, messi sulla scena, nel loro recinto, e molto loquaci, perché forse sentendo la musica volevano rispondere!
Quello dei tacchini è stato il mio debutto come direttore al Festival. Un privilegio, nel teatro voluto e progettato da Wagner. L’esperienza di immergersi nel golfo mistico, la disposizione dell’orchestra su più livelli, il suono, il fatto di non sentire dalla buca i cantanti, la fatica, il caldo incredibile... tutto quando sei lì ti porta in un’altra dimensione: tra suggestione e soggezione. Aver prima cantato, a Bayreuth, e poi diretto è stata una doppia avventura. Quando ero sul palcoscenico avevo la sensazione che la voce non potesse oltrepassare il muro di suono che arrivava dall’orchestra, mentre invece tutto trovava un perfetto equilibrio, dalla sala. È stato utile avere molte prove con l’orchestra: fondamentale, per comprendere la dimensione di questo teatro, dove tutto va calibrato attentamente, trovando la giusta misura con i piani che si possono perdere. Bayreuth ci porta a Hitler: è tristemente vero che il dittatore sin da giovanissimo fosse affascinato da Wagner. Paradossalmente, proprio del compositore che, ideologizzato per dividere gli uomini, ha invece creato un linguaggio che ci unisce, al di sopra di ogni barriera. Baudelaire dopo aver ascoltato per la prima volta a Parigi il Preludio di Lohengrin, profondamente emozionato dalla luce e dagli immensi orizzonti trascendentali evocati da questa musica, scriveva: «La véritable musique suggère des idées analogues dans des cerveaux différents». Provare per credere.