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 2020  novembre 15 Domenica calendario

Ilva, bruciati in otto anni quasi 50 miliardi di Pil

In questa storia, ci sono le persone. E, soprattutto, ci sono i numeri.
Da Oscar Sinigaglia – presidente della prima Ilva negli anni Trenta e fra le anime della classe dirigente tecnoindustriale generata dall’Iri di Alberto Beneduce – a Romano Prodi, che negli anni Ottanta prova a rimettere ordine nell’economia pubblica e negli anni Novanta deve ristrutturarla con il bisturi operando le privatizzazioni. Da Emilio Riva, l’uomo più duro della siderurgia italiana che acquisisce l’Italsider (allora si chiamava così) nel 1995, a Domenico Arcuri, che guida Invitalia e che, in virtù della fiducia del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nel nostro Paese si occupa di numerosi e diversissimi dossier, dalla trattativa con Arcelor Mittal al contrasto alla pandemia.
Il problema principale, però, sono i numeri. L’acciaio, che ha contribuito non poco alla industrializzazione del Paese, è una metafora. Questo perché l’Ilva non è solo l’Ilva. L’Ilva è una bomba esplosa due volte. A metà degli anni Novanta e adesso, alla fine di una vicenda che riporta – in parte o in tutto – la vecchia Italsider nelle mani dello Stato, che l’ha creata e che già una volta l’ha condotta al fallimento.
L’impatto sistemico sul Paese espresso dai numeri di questa storia è devastante. Perché, la bomba dell’Ilva, è già deflagrata. Prima di tutto è deflagrata per la ricchezza che non è stata creata in Italia a seguito del caos innescato dagli arresti della famiglia Riva, dalla sottomissione della politica alla magistratura, dalle gestioni commissariali, da una gara internazionale compromessa dal mutamento delle condizioni contrattuali, dagli errori rispetto al contesto compiuti e dai pessimi risultati gestionali ottenuti dal gruppo franco-indiano Arcelor Mittal.
Se 50 miliardi di Pil in fumo vi sembran pochi
L’elaborazione econometrica realizzata dalla Svimez insieme al Sole-24 Ore è sintetizzata in un numero: sfiora i 50 miliardi di euro il Pil non prodotto dal 2012 a oggi e inghiottito nel buco nero dell’Ilva. Una perdita secca di creazione di valore aggiunto in un Paese che, dal 2008, ha già sperimentato la riduzione di un quinto del suo potenziale manifatturiero e che si è ritrovata più di prima ai margini del capitalismo internazionale nella crisi della globalizzazione.
Nella contabilità siamese del disastro, questo numero è gemello di un altro, contenuto nel rapporto “Le privatizzazioni in Italia dal 1992” di R&S Mediobanca: nel 1995, anno della privatizzazione della Italsider, l’indebitamento indotto era pari a 17.408 miliardi di lire che, al netto dei 2.023 miliardi di lire incassati dallo Stato per la vendita, ha portato il debito residuo a 15.385 miliardi di lire. Una disfatta finanziaria che ha le sue origini nella incapacità, negli anni Ottanta, di gestire gli effetti del raddoppio dello stabilimento realizzato nel decennio precedente: una scelta di politica industriale fatta sulla base di stime della domanda nazionale sbagliate per eccesso, condizionata dal troppo output dell’intero comparto europeo e inserita nel quadro più ampio della crisi endogena dell’Iri. L’Italsider è, in quel momento, parte di un gruppo Iri che è sospeso fra l’innovazione e gli squilibri finanziari, la fisiologia di componente essenziale dell’economia italiana e, a un certo punto, la patologia dell’intreccio fra aziende pubbliche, partiti e sindacati.
I 50 miliardi di euro di mancata ricchezza nazionale – per la precisione 49,361 miliardi di euro – sono l’esito di un calcolo effettuato partendo da un altro numero: i 9,73 milioni di tonnellate di acciaio prodotte nel picco del 2006. In quell’anno, il potenziale dell’acciaieria è stato raggiunto appieno. È questa la ratio strategica che sta dietro alla sopravvivenza di Taranto, Novi Ligure e Cornigliano, qualunque cosa sia accaduta negli ultimi trent’anni: una potenza produttiva da 10 milioni di tonnellate e l’insediamento strategico nel cuore del Mar Mediterraneo.
Lo svuotamento produttivo della fabbrica
Ancora nel 2012, mentre i Riva e i loro principali dirigenti venivano arrestati, sono stati prodotte 8,34 milioni di tonnellate di acciaio. Nel 2013, si è scesi a 5,78 milioni. Nel 2014, si è risaliti a 6,53 milioni. Nel 2015, si è finiti sotto i 5 milioni: per la precisione, 4,9 milioni. Nel 2016, si è tornati a raggiungere i 5,8 milioni. Nel 2017, 4,85 milioni. Nel 2018, 5,5 milioni. Nel 2019, 4,7 milioni. E, quest’anno, si potrebbe sprofondare a 3,2 milioni di tonnellate.
Dietro questi numeri, in questi otto anni c’è stato di tutto: il dolore dei cittadini di Taranto, a cui la statistica non riconoscerà mai con abbastanza precisione la tristezza di vivere in una comunità in cui ogni famiglia ha almeno un malato o un morto, l’estromissione dalla proprietà della famiglia Riva inseguita dai magistrati e dalle forze dell’ordine per i problemi ambientali ma riconosciuta da tutti per la buona gestione industriale delle acciaierie, il succedersi di gestioni commissariali formate da professionisti di qualità ma spesso privi di una esperienza diretta delle fabbriche e del mercato della siderurgia, il disorientamento e la perenne crisi di liquidità dei piccoli imprenditori di Taranto della catena della fornitura e dei servizi, la crisi di credibilità internazionale della politica italiana che cambia le condizioni contrattuali in corso ad Arcelor Mittal dando ad essa la scusa perfetta per andarsene, la prevalenza del potere della magistratura con il gruppo franco-indiano che decide di non uscire dal Paese soltanto quando la Procura di Milano del dottor Francesco Greco fa sentire il tintinnio delle manette, i contorcimenti del governo diviso fra chi nel PD desidera a tutti i costi un accordo fra Arcelor Mittal e Invitalia e chi nei Cinque Stelle vuole la chiusura.
L’impatto sistemico su Pil e export
C’è la politica. C’è la giustizia. Ci sono le classi dirigenti nazionali e quelle locali. E ci sono, appunto, i numeri. Nella elaborazione econometrica compiuta dalla Svimez insieme al Sole 24 Ore, ogni milione di tonnellata in meno rispetto allo standard definito dalla corrispondenza fra potenziale e realtà provoca la trasformazione in cenere di 1,3 miliardi di euro di Pil. L’impatto della riduzione dell’Ilva a un gigante legato a terra ha provocato, fin dall’anno degli arresti dei Riva, una flessione non insignificante del Pil anche in termini percentuali: un decimo di punto nel 2012, tre decimi di punto nel 2013, un quarto di punto nel 2014, quattro decimi di punto nel 2015, tre decimi di punto nel 2016, quattro decimi di punto nel 2017, tre decimi di punto nel 2018, quattro decimi di punto nel 2019 e oltre mezzo punto di Pil quest’anno. Alla fine – operando la grossolana ma efficace semplificazione del rapporto fra tutto il Pil non generato in otto anni dalla crisi dell’Ilva e la stima del Pil di un unico anno (il 2020) – si arriva a oltre tre punti di Pil: il 3,2 per cento.
Questi otto anni dell’Ilva hanno anche un effetto sistemico sulle esportazioni italiane, stimabile in una ventina di miliardi di euro in meno.
I numeri e il paradosso
I numeri sono numeri. Sono proiezioni econometriche. Il cui duplice sottostante è rappresentato dalle vite di 13mila addetti diretti, fra quelli in Ilva in Amministrazione Straordinaria e quelli ora nella società AMInvestco Italy, e dagli equilibri economici di un Paese che ha subito più di una ferita. La ragione di tutto è il problema ambientale. Il paradosso è che gli indicatori ambientali di Taranto sono migliorati. Ma, questo, è capitato soprattutto perché, appunto, la produzione si è ridotta sempre più. Nella chiusura di un cerchio di una vicenda che ha più punti di irrazionalità che non di ragionevolezza e che, mentre lo Stato si appresta a tornare in tutto o in parte nel capitale dell’Ilva, esprime il senso della eterna incapacità del Sistema Paese di risolvere questioni complesse.