Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2020
Fondi sovrani, parte la vendita di asset per 250 miliardi
Chi ha paura dei Fondi Sovrani? La risposta vale 250 miliardi di dollari, quanto vogliono ricavare i grandi investitori arabi e asiatici dalla vendita di asset finanziari europei e americani rastrellati nel decennio della crisi dei mutui e del debito. Munizioni ufficialmente necessarie nella guerra alla pandemia: di fatto, si tratta di vendere azioni di banche, assicurazioni, gruppi industriali multinazionali, imprese di costruzioni, quote di fondi e partecipazioni nelle holding infrastrutturali più importanti del mondo, evitando di provocare tensioni incontrollabili sui prezzi di borsa.
È un prelievo marginale rispetto agli oltre 7mila miliardi di dollari di patrimonio totale investito negli Usa e in Europa dai grandi fondi sovrani arabi, cinesi, russi e del sudest asiatico, ma molto significativo sotto il profilo strategico e per il contesto in cui nasce: solo dal marzo scorso a fine settembre, la perdita di valore subita dai fondi sovrani sulle azioni e le aziende estere possedute, è stata stimata da JP Morgan in mille miliardi di dollari, oltre il 12% del patrimonio finanziario investito. Da 8.400 miliardi di dollari nel 2019, secondo le rilevazioni della banca americana, il valore totale degli investimenti esteri dei Sovereign Wealth Funds è sceso adesso a circa 7.000 miliardi: un salasso senza precedenti, pesante anche per chi il denaro lo prende da un pozzo.
Il crollo del petrolio
I fondi sovrani investono all’estero i petrodollari dei paesi più ricchi di materie prime al mondo. E spesso, anche con un pesante deficit di sviluppo sociale, democrazia e trasparenza, anche finanziaria: verificare l’uso dei fondi è impossibile. Quello che è certo, è che il crollo dei prezzi petroliferi ha creato una voragine nei bilanci e nella crescita dei paesi esportatori. Sotto questo profilo, la pandemia ha soltanto accelerato i tempi di una più profonda revisione della rendita energetica e soprattutto della missione dei fondi sovrani: la priorità strategica, sta diventando sempre più la crescita economica e lo sviluppo del mercato interno, piuttosto che il costoso (e spesso simbolico) presidio azionario che ha caratterizzato gli investimenti sulle piazze mondiali.
L’uscita dall’immobiliare
Già dal febbraio scorso, alle prime avvisaglie della crisi in arrivo, i fondi arabi sono praticamente scomparsi dalle grandi operazioni immobiliari in America e in Europa. Secondo i dati ufficiali, il valore delle transazioni nel real estate promosse da Sovereign Wealth Fund è crollato dai 13 miliardi di dollari del 2019 a circa 3 miliardi di dollari quest’anno: per gli analisti del Sovereign Wealth Funds Institute, il centro internazionale di analisi e ricerche dei fondi sovrani, è il nuovo minimo storico. Le misure anti Covid negli uffici, lo smart working, il blocco del turismo e dei viaggi per affari hanno limitato i contagi, ma anche proiettato in un buco nero di perdite e default l’intera filiera industriale e finanziaria del settore immobiliare. Scomparsi i ricavi per pagare il debito sugli immobili, i prezzi sono crollati, le trattative sono svanite, le banche hanno chiuso la cassa e i fondi sovrani hanno fatto il resto: da quasi otto mesi, il mercato ha perso oltre l’80% delle transazioni originate da fondi sovrani sulle grandi “properties” commerciali occidentali.
Un effetto domino già visto nel 2008, persino con gli stessi protagonisti: titoli derivati garantiti da cartolarizzazioni di mutui ipotecari commerciali con rating doppia o tripla A, che diventano improvvisamente illiquidi o finiscono in default.
Sul mercato, ci sono attualmente 4.800 miliardi di dollari in obbligazioni strutturate, garantite da prestiti sindacati, mutui e bond su derivati immobiliari di ogni tipo. Una bomba a orologeria dormiente ma sensibile e innescata. La ripresa dei contagi e il nuovo blocco di molte attività economiche, commerciali e turistiche in Europa e Usa, infatti, rischiano di dare la spallata finale al banco dei pegni del trading immobiliare. Per ora, nessuno compra e nessuno vende, ma sempre meno pagano le rate. Secondo i dati Trepp (la più autorevole società di analisi sul mercato dei derivati immobiliari) il tasso di insolvenza sui prestiti ipotecari cartolarizzati e garantiti da immobili ha raggiunto a settembre scorso il massimo storico del 10,3%, un balzo abissale rispetto al 2,8% dell’anno scorso. Un nuovo record negativo arriverà per fine anno. E non sarà l’unico nel mondo dei fondi sovrani.
La crisi dei Paesi del Golfo
La situazione è critica per tutti, ma particolarmente per i governi della regione del Golfo, da Abu Dhabi al Qatar: le stime dell’Institute for International Finance (Fondo Monetario), fissano a 296 miliardi di dollari la perdita finanziaria estera subita quest’anno nel comprensorio petrolifero mediorientale. Un colpo duro dopo l’altro, visto che secondo uno studio dell’Economist il fatturato degli esportatori di energia subirà quest’anno un calo del 50%, con il Pil della regione Medio Oriente/Nord Africa previsto in contrazione di circa l’8%, la prima decrescita generale del Golfo a memoria degli emiri. Nel complesso, il 90% delle perdite globali è attribuibile ai dieci più potenti Sovereign Fund del mondo: il colosso di Singapore Temasek dovrebbe aver bruciato almeno 23,5 miliardi di dollari dal patrimonio investito, mentre il fondo sovrano norvegese Norge ha perso addirittura oltre 113 miliardi di dollari di attivo in portafoglio.
I prelievi di cassa dei governi
Ma se le perdite fanno parte delle regole del gioco nell’asset management, il vero fuori programma della pandemia sono i “prelievi straordinari di cassa” dei governi nel patrimonio liquido dei fondi sovrani: in molti paesi, la legge vieta ai governi l’uso del patrimonio dei fondi per finanziare interventi di politica fiscale. Ma al contrario, è quasi un anno che il continuo fabbisogno di denaro per la spesa corrente ha trasformato i fondi sovrani nel bancomat dei governi.
Il Fondo Monetario ha calcolato “prelievi” governativi extra budget per almeno 80 miliardi di dollari entro dicembre. I fondi di Norvegia, Iran, Kuwait e Nigeria, stanno già restituendo i profitti petroliferi conferiti dai rispettivi governi, sia con dividendi straordinari che con altre operazioni “creative”. Il governo norvegese ha anche battuto tutti i record nazionali chiedendo la restituzione di 37 miliardi di dollari ai tesorieri del Norge, ignorando apertamente il divieto costituzionale sull’uso delle riserve sovrane per interventi di politica fiscale. La guerra al Covid costa cara per tutti: la legge ha lasciato la benda sugli occhi.
Insomma, la fuga dei fondi sovrani dal rischio sembra in realtà un più radicale riposizionamento strategico della missione dei fondi sovrani: meno denaro per la finanza internazionale, più finanziamenti per lo sviluppo nazionale. E se possibile, con accordi diretti tra fondi sovrani con interessi complementari e progetti di sviluppo economico regionale di importanza reciproca. Un esempio di questo tipo viene dal soccorso assicurato dal fondo sovrano di Abu Dhabi (Mubadala) al governo di Dubai nella lotta a una pericolosissima crisi immobiliare e bancaria nel pieno dell’emergenza sanitaria. Mubadala ha anche emesso un bond da tre miliardi di dollari per finanziare l’economia dell’emirato alleato, oltre ad aver avviato altri progetti comuni di sviluppo industriale e agricolo.
Secondo l’International Forum of Sovereign Wealth Funds, già nel 2019 gli investimenti “interni” dei fondi sovrani rappresentavano il 21% del totale, ma il saldo di quest’anno potrebbe anche raddoppiare: attualmente la spesa domestica rappresenta più del tasso di rendimento reale previsto per le entrate petrolifere, pari al 3% annuo.
Insomma, molti fondi sovrani si sono improvvisamente resi conto che, pur privi di responsabilità istituzionali esplicite, sono tenuti a far fronte alle passività implicite: obblighi contingenti nei confronti dei governi in caso di shock gravi e improvvisi. Nell’emergenza del COVID-19, i fondi sovrani hanno quindi un doppio mandato: colmare le lacune strutturali di bilancio causate dalla caduta del petrolio, sostenendo al contempo la ripresa degli investimenti sull’economia. In testa a tutti, i salvataggi di aziende in crisi e le privatizzazioni, interventi di politica industriale più tipici dell’europa meridionale che degli emirati in medio oriente.
I settori chiave
Cantieri, compagnie aeree e banche sono il target tipico dei salvataggi: al Temasek, il fondo di Singapore, è stato ordinato pochi mesi fa di investire oltre 13 miliardi di dollari nel piano di riorganizzazione della Singapore Airlines in bancarotta, oltre ai due miliardi spesi per il “ripescaggio” del più importante cantiere navale del paese dal tribunale fallimentare. Anche il fondo sovrano della Malesia è attualmente al lavoro sul salvataggio della Malaysia Airlines, mentre il fondo sovrano della Turchia ha evitato un’insurrezione popolare prendendo il controllo di tre banche nazionali in crisi e di gran parte delle azioni delle compagnie assicurative quotate in Borsa. Interventi senza precedenti, come la decisione irlandese di schierare il fondo sovrano in prima linea a difesa delle imprese colpite dall’emergenza: ricapitalizzerà le piccole e medie imprese per garantirgli l’accesso al credito o al mercato dei capitali. Denaro fresco da affiancare, all’occorrenza, ai fondi raccolti dal Recovery Fund.
A questo proposito, è importante tenere presente che la nuova missione strategica dei fondi sovrani non è circoscritta all’investimento solo nazionale o puramente finanziario: le biotecnologie e le comunicazioni digitali sono la nuova frontiera degli investimenti in petrodollari. Temasek e l’Australia’s Future Fund, per esempio, finanziano insieme la ricerca scientifica sul vaccino contro il COVID-19, mentre il Sovereign fund della Russia è sponsor finanziario della produzione del farmaco antivirale Avifavir, autorizzato da Mosca nel trattamento del virus influenzale cinese.
Nel tentativo di trovare nuove opportunità di investimento, i fondi sovrani stanno aumentando le loro allocazioni in classi di attività alternative. A giugno, avevano investito oltre 17 miliardi di dollari in fondi di capitale di rischio, un livello che supera la loro allocazione totale per l’intero anno 2019, secondo i dati di PitchBook. Tra i grandi beneficiari troviamo le società tecnologiche cinesi, tra cui lo sviluppatore e distributore di giochi Tencent, e la società di streaming video Kuaishou, entrambe le quali hanno ricevuto finanziamenti da Temasek tramite i “Tencent Industry Win-Win Funds”. Nel frattempo, Abu Dhabi ha preso parte a un investimento di 3 miliardi di dollari in Waymo, l’ala tecnologica di Alphabet a guida autonoma, e sta comprando startup cinesi e indiane di alta tecnologia sanitaria. Shangai e Hong Kong attraggono più investitori esteri di Londra e Parigi.
Il confronto con la crisi 2008
Ben altra storia rispetto alla crisi del 2008, quando le borse si aprirono ai capitali asiatici e arabi dopo la grande crisi dei subprime: il fondo del Qatar comprò a prezzi stracciati e in importanti quote azionarie nel Credit Suisse, in Barclays e nel gruppo Volkswagen. Oggi il denaro abbonda e non si paga, ma le grandi banche costano sul mercato molto più di quanto rendono e c’è il buio assoluto sui profitti aziendali: ogni asset rende più di quanto vale, si investe su tutto senza rischi. Dow Jones in record, Nasdaq in record, Bond con mini-tassi record, oro e Bitcoin in record: per non dimenticare il balzo (record) dei titoli tecnologici e della digital economy: tutto e il contrario di tutto. Come la gestione internazionale della pandemia: lo specchio del nuovo disordine globale. Come biasimare chi fa cassa sulle rendite di borsa, per migliorare casa sua? I capitali non sono né buoni né cattivi, né di destra né di sinistra: vanno dove trovano le migliori condizioni. Più la confusione cresce, più il denaro esce.