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 2020  novembre 15 Domenica calendario

Un’anticipazione dall’autobiografia di Obama

A chi affidare il ruolo di vicepresidente? Avevo ristretto la scelta a due sole opzioni: il governatore della Virginia Tim Kaine e il senatore del Delaware Joe Biden. All’epoca ero molto più vicino a Tim, che era stato il primo funzionario eletto di una certa importanza al di fuori dell’Illinois ad assicurarmi il suo sostegno nella corsa alla presidenza, lavorando instancabilmente per la campagna. Diventammo subito amici: eravamo più o meno coetanei, con le stesse radici nel Midwest, un temperamento e persino un curriculum simili (da studente presso la Law School di Harvard, Tim aveva lavorato in una missione in Honduras, e prima di darsi alla politica era stato avvocato nel campo dei diritti civili).
Quanto a Joe, non potevamo essere più diversi l’uno dall’altro, almeno sulla carta. Aveva diciannove anni più di me, e se io a Washington ero un autentico outsider, lui aveva già trascorso trentacinque anni tra i banchi del Senato, ricoprendo anche l’incarico di presidente della Commissione giudiziaria e della Commissione per le relazioni estere. E se la mia formazione giovanile era stata itinerante, lui aveva salde radici nella comunità di Scranton, in Pennsylvania, ed era orgoglioso delle origini operaie irlandesi (fu solo in seguito, una volta eletti, che scoprimmo che i nostri rispettivi antenati irlandesi, entrambi calzolai, erano partiti per l’America a distanza di sole cinque settimane l’uno dall’altro). E se io davo l’impressione di avere un temperamento freddo e controllato, anche per il modo in cui misuravo le parole, Joe era tutto calore umano, un uomo senza inibizioni, sempre felice di esprimere qualsiasi cosa gli passasse per la testa. Era un tratto che attirava simpatie, il suo, perché si vedeva quanto gli piaceva stare in mezzo alla gente. Lo si capiva da come interagiva con gli altri, con quella sua bella faccia sempre illuminata da un sorriso smagliante (e invariabilmente a pochi centimetri dal suo interlocutore, chiunque fosse), mentre chiedeva a qualcuno da dove venisse, per poi dirgli quanto amava quel posto («Il calzone più buono che abbia mangiato in vita mia») o che allora doveva per forza conoscere il tal dei tali («Una persona assolutamente fantastica, proprio un pezzo di pane»), il tutto riempiendo di complimenti i figli («Vi hanno mai detto che siete uno splendore?») o la moglie («Andiamo! Non può avere più di quarant’anni!»), prima di passare al prossimo della fila e poi a quello dopo ancora, finché non aveva investito ogni anima viva nella stanza con una raffica di strette di mano, abbracci, baci, pacche sulla schiena, elogi e battute.
L’entusiasmo di Joe presentava alcuni lati negativi. In una città piena di gente che amava sentirsi parlare, lui non avrebbe avuto rivali. Se la durata prevista di un discorso era di quindici minuti, Joe andava avanti per almeno il doppio. Se la durata prevista era di mezz’ora, allora non c’era modo di sapere per quanto avrebbe parlato. I suoi monologhi durante le audizioni in commissione erano leggendari. L’assoluta mancanza di filtri lo cacciava regolarmente in qualche guaio, come quella volta in cui, nel corso delle primarie, mi aveva definito «un ragazzo di bell’aspetto, pulito e con un eloquio brillante», frase che senza dubbio voleva essere un complimento, ma che qualcuno aveva interpretato come una velata insinuazione del fatto che simili caratteristiche fossero particolarmente degne di nota in un nero.Conoscendolo più da vicino, però, scoprii che le gaffe occasionali erano ben poca cosa rispetto ai suoi punti di forza. Sulle questioni interne era sveglio, concreto e preparato. In fatto di politica estera, poi, poteva vantare un’esperienza vasta e approfondita. Durante la sua relativamente breve corsa nelle primarie, mi aveva colpito per l’abilità e la disciplina con cui affrontava i dibattiti e per la naturalezza dimostrata sul palcoscenico nazionale.
Più di ogni altra cosa, Joe aveva cuore. Da bambino aveva superato una fastidiosa balbuzie (circostanza che, con tutta probabilità, spiegava il suo energico attaccamento alle parole), e due aneurismi cerebrali da adulto. In politica, aveva conosciuto rapidi successi e subito sconfitte imbarazzanti. E poi, oltre a tutto questo, aveva sopportato il peso di una tragedia inimmaginabile: nel 1972, appena qualche settimana dopo la sua elezione al Senato, Joe aveva perso la moglie e la figlia di pochi mesi in un incidente stradale nel quale erano rimasti gravemente feriti i due figli più grandi, Beau e Hunter. All’indomani di questa grave perdita, i colleghi e i fratelli avevano dovuto convincerlo a desistere dal suo proposito di abbandonare il Senato, ma lui aveva organizzato la propria agenda in modo da sobbarcarsi ogni giorno un’ora e mezza di treno fra il Delaware e Washington per potersi prendere cura dei suoi ragazzi, un’abitudine che si sarebbe protratta per i tre decenni successivi.Se era riuscito a sopravvivere a un dolore simile, comunque, il merito era della seconda moglie, Jill, un’insegnante adorabile e discreta che aveva conosciuto tre anni dopo l’incidente e che da allora aveva cresciuto i suoi figli come se fossero i propri. Ogni volta che vedevi i Biden insieme, saltava subito agli occhi quanto la sua famiglia sostenesse Joe e quanto quest’ultimo fosse orgoglioso di Beau, all’epoca procuratore generale del Delaware e astro nascente della politica statale, di Hunter, legale a Washington, di Ashley, assistente sociale a Wilmington, e dei suoi splendidi nipoti.
La famiglia lo aveva sorretto, certo, ma un ruolo altrettanto importante lo aveva giocato l’esuberanza del suo carattere. Se le tragedie e le sconfitte potevano averlo ferito, presto avrei imparato che non lo avevano reso acido o cinico. Era stato sulla base di queste sensazioni che avevo chiesto a Joe di sottoporsi al processo di valutazione iniziale e di incontrarci mentre facevo campagna in Minnesota. Sulle prime aveva fatto resistenza: come la maggior parte dei senatori, Joe aveva un ego smisurato e mal tollerava l’idea di un ruolo di secondo piano. Quando ci vedemmo esordì illustrandomi tutti i motivi per cui un incarico di vicepresidente poteva rappresentare un passo indietro, per lui (insieme alla spiegazione del motivo per cui, in ogni caso, non avrei potuto compiere scelta migliore). Io gli assicurai che non stavo cercando una controfigura da cerimonia ma un vero partner. «Se scegli me», disse Joe, «voglio poter essere messo nelle condizioni di fornirti consigli e valutazioni con la massima franchezza. Tu sarai il presidente e io ti difenderò comunque, qualunque cosa tu decida. Ma voglio che il mio sia l’ultimo parere che chiedi prima di ogni decisione importante». Gli risposi che era un impegno che potevo assumere.
Axe e Plouffe stravedevano entrambi per Tim Kaine e, come me, sapevano bene che si sarebbe inserito perfettamente nell’amministrazione Obama. Come me, però, si domandavano se un ticket presidenziale composto da due avvocati per i diritti civili relativamente giovani e inesperti, nonché progressisti, potesse rappresentare una dose di speranza e cambiamento perfino eccessiva per gli elettori.
Joe portava con sé un certo carico di rischi. Immaginavamo che la sua mancanza di autocontrollo davanti ai microfoni avrebbe potuto dare adito a polemiche di cui non sentivamo l’esigenza. Aveva uno stile vecchio stampo, amava le luci della ribalta e non sempre era consapevole di sé. Avevo la sensazione che potesse irritarsi se si fosse convinto di non ricevere quanto gli spettava: una caratteristica che poteva avere conseguenze esplosive proprio nel contatto quotidiano con un capo più giovane di lui.
Eppure, trovavo estremamente efficace il contrasto tra noi. Apprezzavo il fatto che Joe sarebbe stato prontissimo nelle vesti di presidente, se mai mi fosse successo qualcosa, e che comunque poteva rassicurare quanti ancora temevano che fossi troppo giovane. Attribuivo, inoltre, grande importanza alla sua esperienza in politica estera (soprattutto in un frangente che ci vedeva impelagati in due guerre distinte), alle relazioni bipartisan che intratteneva al Congresso e al suo potenziale nel raggiungere quegli elettori ancora restii a votare per un candidato afroamericano. La cosa più importante, però, era ciò che mi diceva l’istinto: ovvero, che Joe era una persona perbene, onesta e leale. Ero convinto che avesse a cuore la gente comune, e che nei momenti di difficoltà avrei potuto contare su di lui. Non mi avrebbe deluso.
— Traduzione dall’inglese di Chicca Galli, Paolo Lucca, Giuseppe Maugeri Titolo originale dell’opera: A Promised Land © 2020 by Barack Obama This translation published by arrangement with the Crown Publishing Group, a division of Penguin Random House © 2020, Garzanti S.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol