La Lettura, 15 novembre 2020
I segreti dei colori di Maya e Aztechi
Non era facile ottenere il colore blu. Si ricavava dai lapislazzuli ridotti in polvere, come il blu che Giotto usò per dipingere il cielo nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Invece dall’altra parte dell’Atlantico, prima dell’arrivo di Colombo nel Nuovo Mondo, i Maya producevano il blu facendo macerare radici e foglie di indigofera, un arbusto diffuso nelle zone tropicali.
È il cosiddetto blu Maya che risplende ancora oggi sulle pagine dei Codici precolombiani. Ne sono sopravvissuti soltanto dodici, di cui undici conservati in Europa e uno in Messico. La direttrice dell’Istituto di scienze del patrimonio culturale del Cnr, Costanza Miliani, ha analizzato con la sua équipe di ricercatori questi rari documenti, studiandoli con apparecchiature per immagini iperspettrali e fluorescenza a raggi X. Spiega che «i codici sono libri pittografici, mostrano figure dipinte, un fantastico mosaico di colori. Ma i colori ricavati da piante e fiori svaniscono con il volgere degli anni, i Maya avevano il problema di renderli stabili e duraturi. Con le nostre indagini abbiamo ricostruito l’ingegnosa procedura seguita per mantenere quella ricchezza cromatica intatta nel tempo».
Facevano bollire in un recipiente fiori e foglie insieme con palygorskite, un’argilla bianca che ha una struttura molecolare aperta, tubolare, ideale per accogliere durante la bollitura le molecole del colore e imprigionarle, creando un composto ibrido molto resistente. Grazie a questo procedimento conosciuto in chimica come host-guest, ammiriamo tuttora il giallo Maya, composto di argilla e pigmenti carotenoidi. Ma soprattutto apprezziamo il blu Maya, diventato un colore molto diffuso, il colore dei blue jeans.
I codici precolombiani erano formati da una copertina di pelle di cervo o di giaguaro, animale sacro per i Maya. All’interno i fogli erano di pelle o di carta ottenuta dalla corteccia del ficus oppure pestando foglie di agave. Tutti i fogli venivano ricoperti di gesso, uno sfondo bianco sul quale poi lavorava il tlacuilo, il pittore dei codici, con uno stilo di legno e pennelli di peli di coniglio. In alcuni casi i Maya preparavano la superficie da dipingere con succo di lime misto a cera d’api.
Erano libri sacri che le corti reali commissionavano ai loro scribi e li facevano conservare in una «casa dei libri» perché avevano un valore politico, religioso e mantenevano la memoria delle tradizioni. Ogni popolo affidava ai codici la propria storia. I nemici non apprezzavano. Quando il re azteco Itzcoatl intorno al 1430 vinse una guerra, ordinò la distruzione di tutti i libri del popolo vinto per imporre i suoi testi. Ma il grande rogo fu appiccato dai conquistadores spagnoli. Bruciarono migliaia di codici per diffondere una nuova religione e una nuova cultura. «I pochi libri che si sono salvati – racconta Davide Domenici, antropologo, docente dell’Università di Bologna – furono portati in Europa come omaggi. Il condottiero Hernán Cortés ne portò un paio, anche se non aveva molto interesse per questo tipo di oggetti. Preferiva donare a Carlo V oro e gioielli per dare l’immagine di un Nuovo Mondo pieno di ricchezze. Chi invece aveva interesse a far conoscere i codici erano i missionari domenicani».
In Italia ne portarono cinque. Uno è conservato nella Biblioteca universitaria di Bologna: è conosciuto come Codice Cospi, perché ci fu un tempo in cui finì nella collezione del marchese Ferdinando Cospi. Nel 1533, il missionario domenicano Domingo de Betanzos lo regalò a Papa Clemente VII, della famiglia Medici. Glielo consegnò pregandolo di apprezzare la bellezza dei disegni e dei colori e, di conseguenza, la bravura del pittore. Lo scopo dei domenicani era dimostrare al Papa che nel Nuovo Mondo vivevano esseri umani dotati di «ingegno», come si poteva vedere dalle loro opere. Quattro anni dopo il nuovo Papa, Paolo III, Alessandro Farnese, si convinse ed emanò la bolla Sublimis Deus che affermava: «Gli Indios sono veri uomini». E quindi potevano essere convertiti.
Il Codice Cospi è l’ultimo analizzato dagli studiosi dell’Università di Bologna e dai ricercatori del Cnr. È composto da un’unica striscia di pelle di cervo lunga 3 metri e 64 centimetri ripiegata a fisarmonica. Forma 20 pagine quadrate di 18 per 18 centimetri. Le tavole con i pittogrammi occupano entrambe le facciate. Ma il pittore che ha lavorato sulla parte anteriore aveva un talento artistico di gran lunga superiore rispetto a quello che ha dipinto le tavole sul retro.
È un libro tonalàmatl, divinatorio, usato per pronunciare profezie, oracoli, vaticini. Sulle 20 pagine sono dipinte 260 immagini di divinità che corrispondono ai 260 giorni di cui si compone l’anno sacro. L’astrologo lo spruzzava d’acqua o sangue, stendeva davanti a sé la striscia, si ispirava guardando le figure divine, poi prevedeva eventi astronomici, annunciava periodi di carestia, prediceva eventuali pericoli per i sovrani. È rappresentata anche la stella che noi chiamiamo Venere. Gli Aztechi la consideravano in certe circostanze foriera di guai, perciò è disegnata con scheletri e frecce. I ricercatori hanno scoperto che il giallo sul Codice Cospi è stato ottenuto con l’orpimento, un minerale luminoso come l’oro, che però contiene arsenico. Mentre il colore rosso del Codice Cospi è dovuto all’uso della cocciniglia, un parassita del fico d’India. Esportata in Europa, la cocciniglia fu molto apprezzata dai pittori. Paolo Caliari, detto il Veronese, dipinse nel 1565 L’unione felice, oggi alla National Gallery di Londra, e si affidò alla cocciniglia americana per rendere splendidi i rossi delle stoffe.
Figure rosse di cocciniglia campeggiano anche su un codice conservato a Parigi. Mentre su un altro documento Maya che si trova a Madrid l’analisi iperspettrale ha individuato un rosso brunastro ottenuto attraverso una mistura di ematite e caolino. Quello di Madrid è il codice più grande, formato da una striscia lunga 6 metri e 82 centimetri di carta fatta con corteccia d’albero. Per realizzarlo ci lavorarono nove scribi. Dei dodici codici rimasti, quattro sono Maya e gli altri sono Mexica (si legge mescica), come si chiamavano i popoli che noi definiamo Aztechi. L’invenzione della parola Aztechi viene attribuita al geografo tedesco Alexander von Humboldt, che nell’Ottocento la ricavò da Aztlan, un posto mitico, leggendario, di cui i popoli della Mesoamerica si consideravano originari.
I codici Aztechi sono molto colorati, luminosi, hanno mantenuto una straordinaria brillantezza. Dipinti con colori ricavati dai fiori, narrano le genealogie epiche dei re, raccolgono usanze, trasmettono saperi millenari, eventi mitologici, religiosi, sono testi magici sacrali che custodivano la memoria dei popoli. Sono anche poesia, se pensiamo che gli Aztechi vedevano una corrispondenza tra le immagini che riproducevano i ricordi e i colori dei fiori con cui erano dipinte. Perciò si parlava di «memoria fiorita».
Questi manoscritti pittografici erano portati in mezzo alla gente, il contenuto veniva declamato da retori, affabulatori, cantori che usavano un tono simile a una litania. La bellezza dei fiori e l’eleganza del discorso incantavano gli ascoltatori, estasiati dal parlare fiorito. L’eloquenza, la parola forbita era così apprezzata che il termine per indicare il re o l’imperatore significa «colui che parla».
«Erano libri fioriti – dice Davide Domenici, che studia da anni la storia della Mesoamarica —. Fatti dell’essenza dei fiori, la stessa materia della parola e del canto che, come i fiori, sbocciano sulla bocca umana. Il mondo Mexica è il canto dei fiori». Uno dei fiori da cui si traevano i colori era la cosmea arancione, che in Nahua, la lingua dei popoli Mexica, si chiama Xochipilli, lo stesso nome del dio dell’amore, detto principe dei fiori.