La Lettura, 15 novembre 2020
I mostri del XX secolo raccontati da Olivier Guez
Sono lì, tutti in fila. Un’impressionante galleria dei mostri del XX secolo: Lenin, Mussolini, Stalin, Hitler, Franco, Pétain, il giapponese Tojo, Tito, i tre Kim coreani, Mao, l’albanese Hoxha, il paraguayano Stroessner, i due haitiani Duvalier, Castro, il congolese Mobutu, Gheddafi, il tedesco orientale Honecker, Pinochet, il cambogiano Pol Pot, Khomeini, Saddam Hussein, i due Assad siriani. Il secolo dei dittatori, opera collettiva curata dall’autore francese Olivier Guez, è un viaggio attraverso le notevoli analogie psicologiche e le enormi differenze storiche dei protagonisti del Novecento. Epoca totalitaria che non è archiviata perché Guez individua nel XXI secolo nuovi tipi di dittatori: alcuni hanno a disposizione uno Stato, per esempio il turco Erdogan; altri ne fanno felicemente a meno, come il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, senza essere meno pericolosi.
Cominciamo dai dittatori tradizionali, quelli del secolo scorso, che controllavano Paesi e territori. Ha un rapporto personale con quelle vicende?
«Ho conosciuto le dittature da ragazzo, in viaggio: la Berlino Est di Honecker, la Praga di Miloš Jakeš alla fine della guerra fredda, la Cuba di Fidel Castro. Poi, quando l’editore francese Perrin mi ha chiesto di curare un volume collettivo, mi è venuto in mente il “corridoio dei dittatori” che io e il mio amico Ammer organizzammo nel residence, da studenti della London School of Economics. Era morto Deng Xiaoping, e “Libératio n”, per ironia della storia quotidiano già maoista, fece una delle sue splendide prime pagine monografiche sul leader cinese scomparso. Io e il mio amico per gioco decidemmo di affiggere quello e altri ritratti sulle porte del residence, un modo come un altro per sconvolgere i borghesi e incuriosire le ragazze. Sulla mia porta ho tenuto per mesi l’immagine di Saddam Hussein. Ma non osammo scherzare con Hitler o Mussolini».
I dittatori di estrema destra erano più impresentabili degli altri?
«Diciamo che eravamo immersi in quella sorta di tolleranza stupida verso i totalitarismi di estrema sinistra, colpevoli anche loro di milioni di morti come quelli di estrema destra».
Intellettuali influenti come Alain Badiou ancora oggi in Francia hanno un giudizio indulgente verso i totalitarismi comunisti di Urss e Cina.
«È la teoria, che io ritengo assurda, degli “obiettivi nobili e risultati cattivi”, di solito accompagnata dall’idea che Stalin avrebbe travisato e rovinato un rispettabile progetto originario di Lenin. Non è vero, il bolscevismo fu dall’inizio un programma dittatoriale e violento».
Nella sua opera Hitler è posto accanto agli altri dittatori del secolo. Considerata l’unicità della Shoah, Hitler apparteneva a una categoria a parte o no?
«Questione complessa. Nella prima fase del suo percorso Hitler è stato un agitatore politico classico e poi, come Stalin, è stato un megalomane ossessionato dall’idea di costruire un uomo nuovo. Ciò che rende Hitler unico sono stati la mania per la biologia, la razza, l’antisemitismo, lo sterminio su base industriale. Anche in Urss e Cina ci furono campi di concentramento con milioni di morti, intendiamoci. La differenza è che Hitler ha messo la tecnica al servizio del genocidio, ha organizzato un’industria della morte. Inoltre, mentre gli altri cambiavano nemico pubblico a seconda delle fasi e delle convenienze, lui è rimasto fedele alla sua fissazione assoluta, l’odio per gli ebrei e il loro sterminio».
C’è un profilo tipico dei dittatori? E c’è qualcosa che li accomuna?
«Di solito sono uomini che vengono da lontano, hanno fatto molta strada. Origini e doti modeste, nessuno avrebbe immaginato, all’inizio delle loro carriere, di ritrovarseli vent’anni dopo all’apice del potere. Senza cadere nella psicologia da bar, sono uomini che hanno un rapporto spesso difficile con il padre, bambini tiranni che non riescono a tollerare i limiti imposti loro dalla realtà, e che a un certo punto si infilano nelle brecce aperte dalle rotture della storia: il crollo di ben tre imperi e il caos seguito al suicidio europeo della Prima guerra mondiale o la decolonizzazione dopo la Seconda. Queste caratteristiche sono proprie di tutti i dittatori o quasi».
Non pochi di loro riescono a conservare il potere fino alla fine, qualcuno muore nel suo letto. Il crimine paga.
«Direi che possiamo individuare tre gruppi: i dittatori guerrafondai, come Hitler o Mussolini, finiscono male; i dittatori abili, come Franco in Spagna, resistono fino alla fine; e poi ci sono quelli che a un certo punto vengono mollati dai loro padrini russi o americani, come Pinochet in Cile e Stroessner in Paraguay».
Quali differenze tra i dittatori del XX e del XXI secolo?
«Hanno tutti l’ossessione del controllo, esercitata però con strumenti diversi: se nel XX secolo la Stasi tedesco-orientale aveva bisogno di spiare i telefoni fissi e della collaborazione dei guardiani del palazzo per sapere tutto dei cittadini, le dittature oggi si servono di mezzi tecnologici straordinari. La coercizione è minore, si continua a votare, per esempio, ma il controllo delle masse è tale che le elezioni, specie in Russia, non sono un rischio per il potere. La più grande dittatura del XXI secolo mi pare la Cina, con la permanenza del partito-Stato coniugata alle nuove tecnologie, che offrono ai dittatori contemporanei strumenti inimmaginabili dai loro predecessori».
Putin, Erdogan e Cina. A Pechino il sistema prevale sul suo interprete Xi Jinping? Il culto della personalità è paradossalmente minore in Cina?
«Prima dell’emergere di Xi è vero che la Cina ha avuto personalità meno carismatiche e una direzione più collegiale. Ma è una dittatura impressionante, che come altre nel XX secolo gode del sostegno di massima della maggioranza dei cittadini: rispetto all’era di Mao oggi i cinesi godono di straordinario benessere».
Veniamo all’emergere contemporaneo dei dittatori senza Stato, evocati nella sua prefazione. Ora che Trump ha perso le elezioni, pur votato da 70 milioni di americani, possiamo associarlo a questo profilo? Per esempio per il bisogno di cui parla Elias Canetti, che lei cita nel libro, di individuare sempre un nemico interno (i media) ed esterno (la guerra commerciale con la Cina)?
«Direi proprio di sì. Trump ha vinto le elezioni del 2016 e quindi non era un dittatore, anche se ne aveva già le caratteristiche personali. Adesso che ha perso il voto del 2020 emergono con ancora maggiore evidenza i suoi tipici tratti dittatoriali: megalomania, paranoia, narcisismo, incapacità di riconoscere i limiti posti dalla realtà, fascinazione per tiranni come Kim Jong-un che in fondo comprende perché psicologicamente simili a lui, ricorso continuo alle bugie e individuazione dei “nemici del popolo”. Per fortuna la democrazia americana è stata capace di rigettare Trump, sia pure a fatica. Altri Paesi finora non ci sono riusciti, né la Turchia con Erdogan né la democrazia illiberale ungherese con Orbán».
Lei scrive anche che «grazie a Facebook, WhatsApp, Instagram et similia, l’impero delle reti detiene più informazioni sui suoi sudditi di quante ne possedesse Stalin all’epoca delle grandi purghe. I suoi algoritmi sono la polizia segreta del terzo millennio». Facebook è una minaccia per la democrazia?
«Ne sono convinto. Due miliardi di persone seguono i valori di Mark Zuckerberg, in base ai quali su Facebook sono censurate più velocemente immagini di seni femminili che di decapitazioni. I social media americani hanno un’influenza gigantesca e incontrollabile sulla società. Prendiamo il caso di Samuel Paty, il professore francese decapitato dopo una campagna d’odio islamista su Facebook: 15 anni fa gli appelli a colpirlo non avrebbero prodotto gli stessi effetti. Non è vero che le tecnologie siano neutre. Facebook e gli altri social media strutturano la società e i rapporti sociali, sempre più violenti e aggressivi».
Il ministro francese dell’Economia, Bruno Le Maire, mette in guardia contro il progetto di Facebook di creare Libra, la sua moneta elettronica.
«Ha ragione, Libra mi sembra la conferma delle ambizioni globali di Facebook. Battere moneta è la più classica delle prerogative di uno Stato, in questo caso una dittatura senza territorio».
Non si corre il rischio di passare per reazionari affezionati ai bei tempi andati? In questi casi arriva quasi automatico il paragone con chi nel secolo scorso preferiva le carrozze a cavallo alle neonate automobili o adesso vorrebbe tornare ai telefoni in bakelite abbandonando gli smartphone.
«A parte che adoro i telefoni in bakelite, è una questione di libertà e di democrazia. I personaggi come Zuckerberg non rispondono a niente e a nessuno, e godono di un potere immenso arrivando a sapere tutto di noi. Soprattutto, contribuiscono all’attuale evoluzione iperviolenta della società».
Twitter però ha cominciato a combattere la disinformazione nel modo più evidente, segnalando i tweet post-voto di Trump.
«Benché non abbia simpatia per Trump, questo non mi rallegra. A che titolo un attore privato censura il presidente ancora in carica degli Stati Uniti? Chi sono i moderatori? Come sono stati eletti? A quali principi ubbidiscono? E chi ha stabilito questi principi? I dittatori senza Stato ci spingono, più ancora dei leader tradizionali, a sottometterci a una visione americana, e arbitraria, del mondo».