La Lettura, 15 novembre 2020
12QQAFA10 DeLillo spegne la tecnologia
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Samuel Beckett, colpito da afasia dopo un malore in casa, nel 1988, viene portato all’Hôpital Pasteur di Parigi. I dottori, come in una sua piéce, circondano il paziente senza riuscire a mettersi d’accordo sulla diagnosi: ischemia transitoria, Parkinson? Beckett, incapace di parlare, viene portato in una casa di riposo. E scrive. Scrive una poesia. Si intitola Comment dire, «Come si dice», da lui stesso tradotta in inglese come What is the Word . Sono le ultime parole di Beckett, 58 anni dopo il suo debutto letterario, con le quali si congeda dal mondo (morirà pochi giorni prima del Natale successivo: nato di Venerdì Santo e morto a Natale, l’arco più beckettiano possibile) e che verranno pubblicate soltanto dopo la sua morte. Il linguaggio si dissolve. Il tempo collassa su sé stesso. È la «casa indicibile» che ha scrutato — glimpse, «intravedere», recita la voce narrante di quella poesia – fin da quando era ragazzo. Alla fine della vita e della carriera straordinaria di Samuel Beckett, il resto è silenzio.
The Silence, «Il silenzio», è il titolo del nuovo, sorprendente romanzo di Don DeLillo, edito in America da Scribner, che abbaglia con la chiarezza della sua costruzione e inquieta per il senso profetico dell’idea alla sua radice. DeLillo, nato nel 1936, nelle rare interviste ha sempre dribblato con eleganza le domande sulla sua – obiettiva – capacità di prevedere il futuro. Non ho il dono della profezia, spiega ogni volta a chi sottolinea come nei suoi libri abbia anticipato l’11 settembre, la crisi del 2008, il ritorno del nazionalismo, la concentrazione del potere (economico e non solo) nelle mani degli oligarchi dell’ex Urss.
Di sicuro però DeLillo ha un dono: è un architetto sublime di vicende apocalittiche. Zero K (2016, edito in Italia da Einaudi come tutto DeLillo) è il suo personale Libro tibetano dei morti, dove è andato a indagare nella zona liminale tra la vita e la morte, il sonno criogenico dei miliardari che sognano di comprare, tramite la tecnologia, la vita eterna. In The Silence invece DeLillo mette in scena un dinner party infernale a casa di una professoressa universitaria e suo marito: siamo nel 2022, a New York, la sera del Super Bowl, la finale del campionato di football. Una cena molto beckettiana a Manhattan alla quale arriveranno soltanto tre invitati: una coppia appena atterrata da Parigi e un ex studente della professoressa, che ora insegna Fisica in un liceo del Bronx. Quella sera, il mondo si ferma. Si spegne. Scompare tutta, ma proprio tutta, la tecnologia che ci circonda. Gli schermi delle tv, i display dei telefoni e dei device, le radio: tutti spenti. Una pandemia digitale. Il mondo che torna a essere analogico. E perde immediatamente di significato.
Questo romanzo di DeLillo, appena uscito negli Stati Uniti, arriva mentre il mondo è lacerato da una pandemia e non rivela quale sia la catastrofe che è il motore della narrazione. Si tratta di un instant book con il quale il maestro americano cerca di raccontare a modo suo la pandemia? No: DeLillo ha terminato la stesura poco meno di un anno fa, e l’ha inviato a gennaio all’editore americano, quando ancora il Covid-19 era circoscritto alla sola Wuhan, in Cina. È un romanzo sul Covid scritto prima del Covid ma che nelle bozze americane circolate nei mesi scorsi – e ottenute da «la Lettura» – riportava un’interpolazione figlia di un malinteso esilarante: DeLillo ha spiegato laconico al «New York Times» che un editor (non si può non ammirarne la faccia tosta, o la megalomania) ha deciso di aggiungere alle bozze una citazione del Covid-19, ovviamente stonatissima, nel mondo del 2022 immaginato da DeLillo. Mondo nel quale ovviamente non c’è posto per il Covid prima dell’apocalisse digitale. Il maestro, fresco ottantaquattrenne, non se l’è presa a male (altri colleghi meno grandi avrebbero preteso la testa dell’editor): così quelle bozze sono diventate una piccola curiosità da collezionisti.
DeLillo si muove a suo agio nel mondo analogico: non ha un cellulare, e dalla sua casa fuori New York (non troppo lontano perché prima della pandemia amava prendere il treno per andare al cinema a Manhattan) comunica ancora via fax (un fax, come raccontano amici e colleghi scrittori, che spesso non funziona neanche bene). Ha scritto tutti i suoi libri, compreso The Silence, su una vecchia macchina per scrivere meccanica. Se il DeLillo utente – o meglio non-utente – di tecnologia è sostanzialmente un luddista, il DeLillo scrittore parla correntemente lo slang della tecnologia, e in The Silence evoca criptovalute, droni (uno dei personaggi ipotizza che la catastrofe tecnologica derivi dai «droni che sono diventati autonomi» ipotizzando una terrificante «guerra dei droni»), satelliti. È un romanzo apocalittico, la guerra dei droni che sostituisce la guerra dei mondi di Wells (H.G.) & Welles (Orson), la deprimente ammissione che siamo soltanto «schegge di una civiltà» disperse nella storia.
DeLillo, che come Kafka ha un talento innato per lo humour (il giovane Franz leggeva i suoi racconti agli amici ridendo fragorosamente), dà un tocco pinteriano al suo romanzo-piéce teatrale (il libro in inglese è disponibile anche come audiobook, recitazione mirabile con un bellissimo cast nel quale c’è anche Laurie Anderson): l’ex studente della padrona di casa è ossessionato da Einstein, per la precisione dal manoscritto del 1912-14 sulla Teoria della relatività, che cita, anche in tedesco, in un silenzio irreale, mentre il mondo fuori dalle finestre della casa di Manhattan si ferma.
Che cosa ci nasconde uno schermo improvvisamente nero? Che cosa succede se la nostra realtà virtuale – o, forse, iperreale – improvvisamente finisce? La prima parola pronunciata da un personaggio a pagina 1 di questo libro tanto breve quanto allarmante è: «Guarda». L’ultima immagine, 128 pagine dopo, è quella di un uomo che guarda uno schermo spento. Ventotto secoli dopo la definizione di Esiodo – «la totalità di tutto ciò che esiste» – DeLillo evoca senza nominarlo Paul Celan, il poeta della Shoah: «Il mondo non c’è più/ io debbo portarti». Nella notte di Manhattan, l’unica cosa capace di sorreggerci, è uno schermo nero come una lapide.