La Lettura, 15 novembre 2020
Intervista a Nicola Crocetti
Nicola Crocetti non nomina quasi mai la parola «fortuna». Preferisce espressioni come «passione», «tenacia». Eppure, sfogliando l’edizione originale dell’Odissea di Nikos Kazantzakis che lui ha appena finito di tradurre – esce il 19 novembre, per Crocetti Editore – si trovano decine di piccoli quadrifogli essiccati nella carta, minuscoli fossili di buona ventura.
Ne ha trovati tanti nella sua vita?
«A centinaia».
E si può dire che lei abbia compiuto un quasi miracolo: dal 1988 dirige una rivista, «Poesia», dedicata a un genere letterario certamente di nicchia e senza aiuti finanziari di alcun tipo.
«In molti lo hanno definito un miracolo, soprattutto i miei amici americani. E forse lo è: la poesia non interessa a nessuno in Italia, men che meno ai politici o a quelli che hanno soldi. Però si ricordi che nell’antichità, quando moriva un grande condottiero, nell’elogio funebre non si ricordavano le battaglie vinte ma piuttosto si elencavano le sue passioni. Ecco, la passione è tutto».
È stato così anche in quest’ultima sua avventura, la traduzione dell’«Odissea» di Kazantzakis, 33.333 versi per 24 canti, il seguito della storia di Ulisse?
«Senza passione come avrei fatto a imbarcarmi in un viaggio simile? Perché, sia per il poeta di Candia sia per me, queste sono piccole odissee. Lui perché ha avuto l’ardire di immaginare, da greco, la prosecuzione dell’epos omerico, io perché ho deciso di tradurre dal greco un’opera che è una vera Arca di Noè delle parole».
Si spieghi.
«Kazantzakis, morto nel 1957, era cretese. Crescendo si è accorto che molte parole usate dai contadini, dai pescatori o dai marinai rischiavano di sparire, travolte dal turismo di massa e dalla modernità omologante. Così, a un certo punto, si è messo in viaggio: per 13 anni ha battuto tutta la Grecia, villaggio per villaggio, isola per isola, alla ricerca delle parole a rischio di estinzione. E, per salvarle, le ha infilate in questo poema».
Dunque quando lei si è messo a tradurre ha incontrato anche parole che non esistono nei vocabolari?
«A migliaia. Kazantzakis si è divertito a inserire dei vocaboli praticamente intraducibili proprio per sottolineare la loro unicità, la loro identità che non deve essere ferita. Quest’opera è un omaggio alla lingua greca, alla ricchezza del suo milione e mezzo di lemmi, a un idioma che viene parlato ininterrottamente da 3 mila anni. Ecco a che cosa serve la poesia: a salvare la vita delle nostre parole, della nostra memoria, della nostra storia».
È anche un’operazione di salvataggio di proverbi, canti popolari, modi di dire?
«Certo, per esempio ci sono alcuni aggettivi femminili composti, presi dal mondo dei canti, come l’espressione “che ride come un mandorlo”».
Come ha tradotto molti termini senza riscontri?
«Questa è stata la mia vera odissea. Intanto sono partito dalla traduzione inglese, fatta da Kimon Friar lavorando fianco a fianco con Kazantzakis. Poi ho assimilato la sua lezione: come lui ha percorso in lungo e in largo la Grecia alla ricerca delle parole in pericolo, così io ho percorso le strade del web, ho visitato i siti greci sui dialetti e i forum per tradurre e dunque salvare quei lemmi. Quello che è mancato in Grecia è stato, ed è, un’edizione annotata del poema, cosa che dal punto di vista editoriale avrebbe comportato poche decine di pagine in più».
Il poeta parte dalla fine dell’«Odissea» omerica. Itaca sta stretta a Ulisse, che intraprende un nuovo viaggio, stavolta non più proiettato verso il ritorno ma verso l’andare, da Sparta ai regni del Nord Africa.
«Credo che Kazantzakis sia il più titolato a compiere un’operazione del genere, ambiziosissima. Intanto perché era greco e aveva tradotto in greco moderno l’Iliade e l’Odissea. Poi perché, a differenza degli innumerevoli poeti contemporanei che hanno provato a immaginare il seguito della storia di Ulisse, lui compie anche un’operazione di arricchimento della lingua. Per esempio, se Omero utilizza una ventina di epiteti per definire Ulisse, il cretese ne usa moltissimi altri. Come inaddolcibile. Oppure guardaconfini. È partendo dalla lingua, dalla sua lingua, che Kazantzakis arriva al cuore di Ulisse, alla riflessione sull’uomo e sul mondo moderno. Nel poema c’è una profonda digressione sulla libertà e chi conosce bene la cultura greca sa quanto questa sia centrale».
Lei la conosce benissimo. Nato in Grecia, venne in Italia a 5 anni e mezzo con la sua famiglia, perché dopo la guerra gli italiani non erano più graditi.
«Sì, anche se oggi ci amano molto. Il nostro popolo, nelle vesti di occupante, non sempre era “brava gente” e va detto. In ogni caso, io ancora oggi con mia sorella parlo greco, così come con i miei parenti che vivono lì».
Lei ha dedicato tutta la sua vita alla diffusione e alla valorizzazione della cultura greca. Possiamo dire che questa sia l’opera più importante per Nicola Crocetti?
«Sì. Questa traduzione ha richiesto 7 anni, anche se l’ho fatta continuando a lavorare alla casa editrice, la Crocetti Editore, e a “Poesia”. L’ingresso nel marchio editoriale Feltrinelli è stato cruciale perché abbiamo più respiro sul piano economico, però il lavoro rigoroso sui testi e sulla scelta dei poeti resta quello d’origine. Io ho 80 anni e ho tradotto più di 100 mila versi dal greco, ho pubblicato 3.300 poeti e più di 60 mila poesie da 38 lingue. Un risultato che oggi mi riempie di soddisfazione ma che mi ha anche portato 70 mila nemici».
E chi sono i 70 mila nemici di Nicola Crocetti?
«Gli autori di tutti i manoscritti che ho rifiutato».
Severo ma giusto, come l’Ulisse di Kazantzakis.
«Sarò sincero: leggo sempre 3 o 4 poesie di ogni manoscritto che arriva e, mi creda, ne arrivano a montagne. Però non si può pubblicare tutto, specie se si è un piccolo editore. Molti vedono in questa voglia di scrivere versi un decadimento della poesia ma nessuno nota che, invece, è un segnale di grande interesse e, aggiungo, trasversale, di tutte le età. Ecco perché l’assenza di un vero mecenatismo colto in questo mondo spicca in modo ancora più intenso. In tutti questi anni, nonostante abbia chiesto aiuti un po’ dappertutto, un solo industriale mi ha dato un aiuto consistente».
Nomi, nomi.
«Emilio Gnutti, di Brescia».
Parte della critica imputa ai poeti stessi la colpa di questo disinteresse, accusandoli di essersi chiusi in un’autoreferenzialità e nell’incomprensibilità.
«Riconosco che per certi versi è vero, però va anche detto che in altre parti del mondo le cose stanno diversamente. Negli Stati Uniti i poeti sono tenuti in grande considerazione, intervengono quando si insedia un presidente, vengono pagati per lavorare, esiste la figura del Poeta Laureato. In Spagna ci sono premi molto rilevanti, come il “Reina Sofía”, che seleziona e valorizza voci importantissime. In Grecia quando muore un poeta accorrono le folle e le massime cariche istituzionali. Perché in Italia tutto questo non avviene?».
Forse perché qualche volta la vita e l’esperienza personale di un poeta o di una poetessa prendono il sopravvento rispetto alla produzione poetica? Insomma, lo «storytelling» è più facile da cogliere?
«Qualche volta però è questa commistione di vita e poesia a rendere davvero originale una voce».
Come nel caso di Patrizia Cavalli?
«Sì, ma anche di Vivian Lamarque. Poi ci sono i casi come Alda Merini. Qui siamo di fronte a una grandissima poetessa i cui versi nascevano da una forte istintualità, quasi in maniera medianica. Però a un certo punto lei è rimasta vittima di un sistema che l’ha fatta diventare qualcosa d’altro. Sa che cosa diceva Alda Merini? “Ognuno ha la sua croce, io ho il mio Crocetti”».
Lei ha pubblicato un altro esempio di poeta divenuto popolare e amatissimo, Pierluigi Cappello.
«Quando mi capitarono tra le mani i suoi versi dissi subito che un talento come il suo andava fatto conoscere e lo pubblicammo, con grande successo».
Ci sono poi casi di poeti capaci di raggiungere la sensibilità di persone in tutto il mondo, ma che sono anche poeti di grande rilievo, sia linguistico che di contenuto. Per esempio Wisława Szymborska.
«Mi ricorda Maurizio Crozza: così come lui fa la parodia dei politici e ti strappa un sorriso e un applauso, lei fa una straordinaria parodia dei sentimenti, ti commuove facendoti ridere di gusto. Geniali entrambi».
Oggi il gruppo da lei fondato e diretto è «sotto l’ombrello» di Feltrinelli. È più tranquillo?
«Sono stato molto contento di questo accordo, che preserva in tutto la nostra identità. Faccio sempre l’esempio della donazione fatta dalla miliardaria Ruth Lilly, in America, alla rivista “Poetry”: 100 milioni di dollari. All’inizio si gridò al miracolo ma poi i soldi finirono per snaturare la rivista, che licenziò lo storico e bravissimo direttore, fece scelte scellerate, insomma quel dono così consistente finì per nuocere».
Ha mai incontrato Ruth Lilly?
«No, ma una volta pubblicammo un’inserzione su un quotidiano americano invitando alle donazioni e mi arrivò un biglietto in cui si chiedevano informazioni su “Poesia”. Era firmato Ruth Lilly».
E che cosa avvenne?
«Assolutamente nulla».