La Lettura, 15 novembre 2020
Coltivare il cervello in laboratorio
Nel corso degli ultimi anni lo strumentario a disposizione dei biologi cellulari si è arricchito della capacità di ottenere in vitro (e in tre dimensioni) strutture miniaturizzate di diversi organi, i cosiddetti organoidi, a partire da colture di cellule staminali. Colture di staminali (pluripotenti e somatiche) sono oggi in grado di autoassemblare in miniatura organi come polmone, intestino, stomaco, fegato, rene, tiroide, pancreas, prostata, retina, vasi sanguigni, ghiandole salivari, ghiandole mammarie e cervello; organoidi che replicano le caratteristiche strutturali e funzionali delle loro controparti in vivo.
Da una biopsia è possibile sia estrarre staminali somatiche sia generare staminali pluripotenti, ad esempio dai fibroblasti della pelle. Ponendo poi in coltura, su matrici tridimensionali di varia natura (la più famosa si chiama Matrigel), queste staminali e addizionando il brodo di coltura con nutrienti adatti ad accendere (o a spegnere) diversi momenti della differenzazione cellulare, si assiste all’affascinante fenomeno della formazione di un organoide. Dall’iniziale moltiplicarsi sino all’associarsi delle cellule e il gioco è fatto: in pochi giorni l’aggregato cellulare inizia a contrarsi ritmicamente battendo con un precisissimo periodo temporale; si è formato l’organoide del cuore!
Gli organoidi aprono nuove frontiere in diversi campi della biologia e della medicina, basta ricordare la possibilità di analizzare in estremo dettaglio l’architettura e la fisiologia di un organo, i meccanismi regolatori e le tappe ricapitolative della sua organogenesi, di saggiare in breve tempo le proprietà farmacologiche (tossicità ed efficacia) di tante molecole utili alla medicina di precisione (personalizzata), di generare tessuti utili ai trapianti sostituendo così parti difettose del corpo.
Inoltre, se prodotti a partire da cellule derivate da un paziente affetto da una specifica patologia, gli organoidi permettono di studiare, e capire, che cosa accade nel corso della malattia, ad esempio a causa di un disordine genetico, di un tumore o durante un’infezione. In altre parole, permettono di modellare lo studio di diverse patologie, ad esempio la fibrosi cistica e la microcefalia dei bambini causata dall’infezione del virus Zika che colpisce la madre in gravidanza. Esempio di grande attualità, permettono di verificare l’efficacia di farmaci contro l’infezione del coronavirus Sars-CoV-2 ai reni, all’intestino, al fegato e ai vasi sanguigni. Aiutano inoltre a ridurre l’impiego degli animali, pratica scientifica oggetto di molte polemiche, nella sperimentazione biologica.
Gli studi che portano all’attuale capacità di produrre organoidi iniziano con gli esperimenti agli inizi del secolo scorso sulla dissociazione e riaggregazione delle cellule dei Poriferi (detti comunemente spugne) e culminano nell’attuale capacità di generare organoidi cerebrali. Nella vita di laboratorio la comparsa sotto al microscopio di un organoide è un fenomeno eccitante, tuttavia la comparsa dell’organoide del cervello può ovviamente inquietare. A partire dagli iniziali esperimenti di Madeline Lancaster (Medical Research Council, Cambridge, Regno Unito), avviati circa dieci anni fa, ove si sviluppavano strutture anatomiche non più complesse dell’encefalo del terzo trimestre di vita embrionale, oggi Alyson Muotri (Università della California, San Diego) è in grado di generare organoidi cerebrali che presentano attività fisiologiche simili a quelle che si registrano nel cervello dei neonati prematuri del settimo-ottavo mese di gravidanza, come illustra un articolo apparso lo scorso anno, a firma di Cleber A. Trujillo e di altri studiosi, sulla rivista scientifica «Cell Stem Cell».
L’insieme delle coordinate attività elettriche (elettroencefalogrammi) manifestate da questi organoidi ha tuttavia generato dubbi sul loro possibile stato di coscienza e ha spinto il gruppo di ricerca a spegnere l’esperimento dopo alcuni mesi, sebbene non esistano linee guida negli Stati Uniti e in Europa che possano fermare esperimenti che coinvolgono la possibilità che si sviluppino stati di coscienza negli organoidi.
È chiaro comunque che bloccare la generazione di organoidi cerebrali per interrogarsi sulle problematiche etiche e filosofiche sottese al loro ottenimento significa rallentare, se non bloccare, la concreta possibilità di comprendere e curare devastanti patologie neurologiche come epilessia, schizofrenia, autismo. Gli ultimi lavori del gruppo di Madeline Lancaster (documentati da articoli apparsi quest’anno sulle riviste «Nature» e «Science») già dimostrano la capacità degli organoidi di produrre fluido cerebrospinale e dar luogo alla formazione di nervi funzionali.
I dubbi etici legati alla generazione di cervelli miniaturizzati cresciuti in laboratorio e capaci di sviluppare consciousness (coscienza) cadono tra l’altro in una sorta di buco nero per l’incapacità dei neurobiologi di definire, e misurare, che cosa sia effettivamente uno «stato di coscienza». Non sappiamo se basti la presenza della corteccia cerebrale, deputata a ricevere ed elaborare stimoli di varia natura, per definire la presenza di uno stato di coscienza o se questa dipenda solo dalla densità delle circuiterie neuronali (più neuroni interagiscono, maggiore è il grado di coscienza).
Neurobiologi e clinici assumono diverse metriche per definire questa condizione in funzione di specifiche necessità operazionali e così non sappiamo decidere quale sia lo stato di coscienza degli organoidi cerebrali che cresciamo in laboratorio, incapaci di sbattere le palpebre o di ritrarsi da uno stimolo doloroso.
Poiché però la perdita di coscienza nel corso del sonno o sotto anestesia o in seguito a lesioni cerebrali è dovuta allo sganciamento funzionale tra aree cerebrali che esplicano specifiche funzioni cognitive, è molto probabile che lo stato di coscienza si basi su ampie e articolate comunicazioni interneuronali tra diverse aree cerebrali.
Con il divenire gli organoidi cerebrali sempre più grandi e sofisticati, la loro capacità di sviluppare stati di coscienza senziente (e dunque la capacità di provare, almeno in un certo grado, piacere, dolore o angoscia) o addirittura la consapevolezza di sé appare dunque sempre meno remota. Al punto che lo studio degli algoritmi capaci di descrivere gli stati di coscienza degli organoidi cerebrali del laboratorio di Muotri sono già al centro dell’interesse di Microsoft per lo sviluppo di sistemi artificiali che funzionino come la coscienza umana.
Questi avanzamenti tecnici sfuocano le nostre concezioni (di carattere storico e culturale) sull’identità umana e invitano a ripensare che cosa significa «essere umani» e quali obblighi morali sviluppare verso un organo cresciuto al di fuori del corpo umano, ma che potrebbe provare dolore, memoria, emozioni. Di grande interesse è seguire la conferenza Ted di Madeline Lancaster (disponibile su YouTube) sul «crescere mini-cervelli per scoprire che cosa ci rende umani». Senza dimenticare che gli organoidi, mini cervelli, generati da fibroplasti della pelle riprogrammati geneticamente possono essere: coltivati senza limiti di tempo, al di là della vita del donatore di cellule; generati da un semplice furto, anche un graffio di cellule su un vagone affollato della metropolitana e dunque senza il consenso del donatore.
Dinanzi a questa complessità concettuale è urgente elaborare nuove e più sfumate idee (senza pretendere di fornire risposte univoche) sull’identità umana, sulla coscienza, sulla mortalità, sul libero arbitrio, per continuare a guardare alle scienze della vita in un modo rassicurante.