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 2020  novembre 15 Domenica calendario

QQAN20 Dalla stampa allo smartphone, le rivoluzioni silenziose

QQAN20

Dagli ultimi bagliori del secolo scorso, abbiamo vissuto la più grande rivoluzione tecnologica e antropologica che l’umanità abbia mai conosciuto e quasi non ce ne siamo accorti. O meglio, sì, qualcosa abbiamo percepito perché lo smartphone ci ha fatto sentire al centro del mondo, perché siamo stati affascinati dalle infinite possibilità offerte da internet e dai suoi motori di ricerca, perché sui social abbiamo potuto dire finalmente la nostra, perché abbiamo letto dei progressi raggiunti dalle biotecnologie che modificano e allungano la vita, perché l’intelligenza artificiale è venuta in soccorso alla nostra, che non sempre si è dimostrata all’altezza. Ma ce ne siamo accorti solo quando le cose hanno cominciato a girare storto (crisi dell’editoria, uso perverso di internet, l’incubo di un nuovo Grande Fratello...), intanto, però, il mondo della comunicazione era cambiato per sempre, avendo raggiunto un punto di non ritorno.
A cose fatte, abbiamo scoperto che erano avvenute delle metamorfosi, non dei prevedibili upgrading, ma mutamenti radicali che stavano cambiando i sistemi istituzionali, economici e produttivi. E con essi le forme simboliche di relazione e le modalità di fruizione che avevano investito non solamente la televisione, ma più in generale l’ambiente mediale di cui il broadcasting continua – pur in modi differenti – a convivere e a essere un perno essenziale.

Ci sono rivoluzioni che grondano sangue e portano a un mutamento repentino dell’ordine politico e sociale di un Paese (sono quelle di cui si occupano in prevalenza gli storici); ci sono rivoluzioni in campo scientifico (da Niccolò Copernico alla fisica quantistica, tanto per fare degli esempi) attraverso cui la comunità scientifica abbandona vecchi paradigmi di ricerca per adottarne altri ritenuti più idonei dei precedenti; ci sono rivoluzioni industriali caratterizzate dall’uso di macchine azionate da energia meccanica che hanno prodotto trasformazioni irreversibili del sistema produttivo tali da coinvolgere in breve tempo l’intero sistema politico e sociale.
Ci sono anche rivoluzioni inavvertite: non si presentano come tali, si insinuano nella quotidianità, all’apparenza sembrano feste mascherate. Secondo un celebre aforisma baconiano, tre invenzioni hanno cambiato la faccia del mondo: l’arte della stampa, la polvere da sparo e la bussola. I colpi d’arma da fuoco si sono fatti sentire e la bussola ha permesso navigazioni e scoperte di terre sconosciute. Ma la stampa?
La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento è il titolo di un importante libro di Elisabeth L. Eisenstein uscito nel 1979 e tradotto in Italia dal Mulino nel 1985. L’avvento della stampa fu accolto da pochi «addetti ai lavori» come una specie di prodigio perché trasformava il libro da oggetto caro e raro, esistente nella sola forma del manoscritto, in un prodotto che poteva facilmente essere moltiplicato in un numero crescente di esemplari e a prezzi sempre più ridotti. Per questo, in seguito, la stampa fu unanimemente considerata come un passaggio epocale dal Medioevo all’Età moderna.
L’invenzione della stampa è opera di Johannes Gutenberg che nel 1445 elaborò una tecnica per produrre in serie alfabeti fondendo ogni singolo carattere metallico in una matrice posta in una forma. Ogni copia manoscritta era un «unicum», mentre il libro stampato poteva essere riprodotto identico senza limiti; i tipografi ebbero perciò un ruolo essenziale nel definire le lingue moderne.
Come è stato notato, nel Medioevo la lettura mentale e «interiore» individuale aveva sostituito negli ambienti monastici la lettura compiuta pronunciando a bassa voce le parole scritte. Ben maggiore fu la scala dell’affermazione di questo genere di lettura sulla lettura pubblica ad alta voce, via via che la diffusione dell’alfabetismo procedeva insieme alla moltiplicazione dei libri a stampa.
Siccome i lettori di professione non erano molti, il libro manoscritto e il libro stampato hanno convissuto per molto tempo. Il passaggio dall’uno all’altro avvenne all’insegna della continuità, non della rottura: fu, insomma, per la storia delle comunicazioni, una «rivoluzione inavvertita», data l’assoluta identità esteriore dei due oggetti e la pluridecennale convivenza dei due diversi modi di fabbricazione. Fra le molte conseguenze della «cultura della stampa», la Eisenstein sceglie di dedicare la sua attenzione e la maggior parte del suo libro al Rinascimento, alla Riforma e alla Rivoluzione scientifica. Fu il libro stampato a far passare dai pochi dotti del primo umanesimo a un vasto pubblico colto che poteva disporre di edizioni corrette degli autori greci e latini. Furono le edizioni a stampa della Bibbia che resero concretamente possibile il libero esame delle Scritture, come voleva Martin Lutero. E furono ancora i libri stampati, con le loro mappe e le loro illustrazioni, a mettere sotto gli occhi di tutti la geografia e l’astronomia che demolivano il mondo di Aristotele e Tolomeo.

Toccherà poi a Marshall McLuhan ne La galassia Gutenberg (un libro che meriterebbe di essere «riletto» con grande attenzione, pubblicato in Italia nel 1976 dall’editore Armando) spiegare l’evoluzione dell’uomo tipografico. Nel 1962, lo studioso canadese analizzava l’interazione tra l’uomo e il suo ambiente, in cui ogni «medium» realizzato dall’uomo stesso costituisce una «estensione» del suo corpo, o di una sua particolare facoltà: la parola estende il pensiero, la ruota il piede, l’abito la pelle, e così via, sino all’estensione delle tecnologie comunicative, di cui il libro a stampa con caratteri mobili diventa il veicolo principale del cambiamento sociale e intellettuale dei secoli seguenti.
Anche l’avvento della televisione è stato una rivoluzione inavvertita. Certo la stupefazione era grande per quelle immagini in bianco e nero e l’idea di poter vedere «in diretta» un avvenimento che si svolgeva a migliaia di chilometri di distanza faceva gridare al miracolo: il mondo che entrava in casa da quella strana finestra era da brivido, anche se per molto tempo la televisione è stata considerata come una branca casalinga del mondo dello spettacolo, un divertimento, un passatempo. Niente di più. La rivoluzione si era presentata in abiti di gala, come puro intrattenimento.
Oggi si sottolinea come il ruolo dei media e della televisione nella costruzione di uno spazio pubblico nazionale sia stato il contributo più rilevante che l’industria culturale ha svolto nel processo di modernizzazione. Estremamente rilevante nel caso italiano, la cui effettiva unificazione linguistica e culturale è avvenuta più nella lingua del piccolo schermo che in quella delle aule scolastiche. Sul periodo della cosiddetta «televisione delle origini», cioè la televisione del monopolio Rai, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, c’è ormai una certa unanimità. Accanto alle considerazioni sul progetto pedagogico-nazionale del servizio pubblico, sulle radici umanistiche della nostra televisione, sul succedersi nel palcoscenico del piccolo schermo delle mille province e delle mille Italie ancora in gran parte sconosciute agli stessi italiani, si è riconosciuta a quella televisione la funzione di istituzione sociale. Ma anche in tutti gli altri Paesi abbiamo potuto assistere a processi analoghi.
La televisione presentava dei vantaggi consistenti: sia per la sua capacità di articolare il pubblico nel privato, sia ovviamente per la sua accessibilità e popolarità, per quella sua caratteristica complementare, aggregativa (contrapposta alla settorializzazione della cultura a stampa) intuita molto precocemente da Marshall McLuhan ne Gli strumenti del comunicare (1964; il Saggiatore, 1967), e ribadita da Joshua Meyrowitz in Oltre il senso del luogo (1987; Baskerville, 1993), sia, infine, per la sua specificità di medium generalista di flusso che tendeva a sincronizzare i ritmi di una comunità: la televisione assorbiva e insieme dettava i tempi di una nazione.
Se, come ha dimostrato Benedict Anderson in Comunità immaginate (1983 e 1991; manifestolibri 1996; Laterza, 2018), una nazione, per esistere, deve innanzitutto immaginarsi come tale e se, in questo processo, il capitalismo a stampa ha svolto un ruolo centrale nella ritualità immaginativa che unisce persone separate spazialmente ma unite nell’hegeliana «preghiera laica del mattino» della lettura dei giornali, il discorso va senz’altro ripreso e rilanciato per la televisione, che – più ancora dei suoi contenuti particolari – ha trasmesso la sensazione, anzi la certezza, che altri, vicini e lontani, erano all’ascolto, erano spettatori nello stesso istante della medesima rappresentazione, erano un «noi» accomunato dall’appartenenza al medesimo spazio pubblico.
Certo, fin da subito, alcuni studiosi legati alla cosiddetta «Scuola di Francoforte» avevano colto la portata epocale della radio, della televisione e degli strumenti di riproduzione. Ma l’avevano colta solo in senso negativo: la «standardizzazione» e la «ripetizione» – cioè il predominio della produzione seriale secondo formule fisse e ampiamente collaudate, sul modello della grande fabbrica «fordista» – avrebbero portato all’unidirezionalità dei processi comunicativi e alla perdita del senso critico. Insomma, un disastro prossimo venturo.
Ma intanto, per oltre mezzo secolo, la televisione è stata il medium egemone del Novecento e ha svolto un preciso ruolo sociale, alimentando un’esperienza tanto diffusa quanto condivisa dagli spettatori, riassumibile nella semplice espressione «guardare la tv». Per molto tempo, dunque, «guardare la tv» è stato come vivere un nuovo mondo, un’esperienza di inestimabile valore.
Anche l’avvento di internet è stato una rivoluzione inavvertita; muoveva i suoi primi passi come fosse un meraviglioso gadget. Il mondo della comunicazione del nuovo millennio è ancora al centro di un vertiginoso e profondo cambiamento: il telefono, così come l’abbiamo conosciuto e usato per tanti anni, non è più il telefono; i giornali non sono solo più giornali, stanno mutando pelle e contenuti; la televisione non è più la televisione; persino il computer non è più il computer con cui abbiamo imparato a digitare.
Motore di questa evoluzione è stato il fenomeno della convergenza. Tecnicamente, la convergenza è l’unione di più strumenti del comunicare, una fusione resa possibile dalla tecnologia: il passaggio dall’analogico al digitale, un passaggio ancora una volta definito «epocale». Ciascun medium non è più destinato a svolgere un singolo tipo di prestazione, ma è in grado di diffondere diversi contenuti (fotografia, radio, conversazioni telefoniche, tv, musica). Convergenza significa anche che il futuro della comunicazione è qualcosa che va ben oltre la comunicazione e coinvolge categorie antropologiche. Convergenza è la voce del molteplice, dell’indiscernibile e dell’ibridato. Grazie alla facilità di spostamento (prima del Covid-19), ai flussi migratori, alla globalizzazione, tutto il mondo converge, si mescola, tende al meticciato.
Considerata l’importanza e la pervasività dei mezzi di comunicazione nella società contemporanea, e il fatto che i media non sono solo semplici protesi come aveva intuito McLuhan, ma piuttosto ambienti in cui siamo immersi, il mutamento in corso è totalmente culturale. Riguarda cioè la «cultura» nel senso più ampio e antropologico della parola: un patrimonio di conoscenze, di nuove convenzioni sociali (dove si radunano il nostro essere sociale e la nostra identità individuale e collettiva) e di inedite espressioni di civiltà.

Sotto la potente spinta della digitalizzazione, oggi facciamo con i media cose un tempo impensate. Chi frequenta i social conosce i pregi e i difetti delle comunità virtuali, ma il fatto più rilevante è che comincia a far parte di una «cittadinanza digitale» che va ben oltre i narcisismi rétro del socialnetworkismo. L’idea di fondo dei social è proprio quella di addomesticare il web e restringerlo ai propri bisogni. Illusione? Sono bastati alcuni allarmi – articoli, libri, un documentario come The Social Dilemma — perché si diffondesse una grande paura.
La fiorentissima economia di internet è fondata su una sorta di trabocchetto, la nostra sudditanza spensierata agli algoritmi, che mirano a influenzare il comportamento degli esseri umani, comincia a costare molto cara alla società? Viviamo infatti nella costante illusione che i social siano mezzi assolutamente gestibili, e anzi facilmente e interamente controllabili, ma non è affatto così. Nemmeno per chi li ha creati. Fino all’avvento delle grandi tecnologie, l’uomo cercava di dominare la natura, evitando più facilmente i rischi che possono venire da essa. Adesso, collaborando più o meno consciamente con macchine che non conosce a fondo, che comunque non domina, è lui che immette rischi attraverso le sue decisioni.
Come ammoniva la Eisenstein, a proposito delle rivoluzioni che passano in punta di piedi senza il rullo dei tamburi, «bisogna fare i conti con le conseguenze prodotte da una trasformazione cruciale, che la riconosciamo o no». Dobbiamo cioè fare in modo che non passino inosservate.