La Lettura, 15 novembre 2020
I nuovi samurai
È la presenza della Cina a focalizzare le menti in Asia. Negli anni scorsi, compresa l’era Trump, il Giappone si è mosso all’opposto dell’Europa, sulla quale il fiato del lontano drago è meno opprimente: Tokyo ha sviluppato una sua complessa strategia economica, diplomatica e anche militare per rafforzare la propria sicurezza nella regione; per nulla fuori dall’ombrello americano ma senza stare ad aspettare la Casa Bianca. Shinzo Abe, primo ministro in carica dal 2012 allo scorso agosto, di questo nuovo attivismo internazionale è stato l’architetto: ora, il nuovo premier Yoshihide Suga lo dovrà portare avanti nell’era Biden. Due nuovi leader, a Tokyo e a Washington, ma un Giappone sempre in proiezione estera: «Di nuovo una potenza di prima fila», ebbe a dire Abe.
Alla base della nuova posizione strategica nipponica ci sono un’idea geopolitica e la conseguente costruzione di una partnership di sicurezza. La base teorica è la definizione della regione indo-pacifica come l’area nella quale si decide la sicurezza del Paese. Il Giappone è una grande economia, la terza del mondo, fortemente orientata al commercio internazionale: la libertà di navigazione sui mari e sugli oceani è per il Paese strategica. Questa è stata garantita per anni, a livello globale, dagli Stati Uniti. Ora, nella visione di Abe e dei vertici della diplomazia giapponese, c’è il rischio che sia messa in discussione da una Cina sempre più affermativa in Asia, a cominciare dal Mare Cinese meridionale, e sempre più proiettata a una forte presenza navale nei due oceani, Pacifico e Indiano, cioè sulle rotte del commercio nipponico. Una politica estera basata sui «mari aperti» è, in altri termini, una strategia di difesa dell’interesse nazionale, prima di tutto economico, per Tokyo.
La visione disegnata da Abe parte dalla considerazione dell’Indo-Pacifico come il centro di gravità dei prossimi decenni, la vasta area nella quale si realizzeranno i maggiori sviluppi economici e dove si deciderà il nuovo equilibrio internazionale, in transizione dall’Atlantico verso Est. In quest’area Pechino muove da anni le sue pedine, soprattutto attraverso la Belt and Road Initiative, in particolare la Via della Seta Marittima, la cui connettività tra i diversi Paesi è infrastrutturale ma anche enorme per influenza politica. Può sembrare velleitario che il tutto sommato non grande Giappone si ponga in competizione, anche se non sempre esplicitata, con il potente gigante cinese; il fatto è che Tokyo non può farne a meno, se non vuole finire nell’orbita della Cina: nazionalmente e storicamente inaccettabile. Nella visione di Abe e di Suga, che è stato suo collaboratore per anni, l’Indo-Pacifico è dunque allo stesso tempo uno spazio geografico che va dal Giappone alla costa orientale dell’Africa, un’idea di futuro e una strategia di sicurezza.
Del nuovo concetto geopolitico Abe parlò già nel 2007, durante la sua prima premiership durata solo un anno. Idea ripresa con forza nel 2012 e diventata una posizione definita e resa pubblica sotto il titolo «Indo-Pacifico libero e aperto»: il primo ministro la esplicitò durante una conferenza con i Paesi africani, a Nairobi, nell’agosto 2016. Il successivo 11 novembre, mentre il mondo cercava di riprendersi dallo choc dell’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, Abe viaggiò da Tokyo a Kobe a bordo di uno shinkansen, il treno supervelocegiapponese, in conversazione con il premier indiano Narendra Modi. Dal colloquio uscì la determinazione a collaborare nella Difesa, nell’economia, nell’istruzione, in diplomazia, nella tecnologia, nell’ambiente, nella cultura. Una partnership da sviluppare in una prospettiva che i due leader definirono indo-pacifica: non più solo Asia, non più solo Asia meridionale, non più solo Pacifico, ma un concetto più ampio e più significativo, che prende il nome dall’enorme bacino nel quale la Cina di Xi Jinping cerca di estendere la propria egemonia. Nelle parole della diplomazia giapponese, è l’obiettivo di creare «un arco di libertà e prosperità». La politica di Free and Open Indo-Pacific è poi entrata nelle strategie del ministero degli Affari esteri ed è vicina al centro delle elaborazioni del relativamente nuovo Consiglio di sicurezza nazionale.
Il concetto strategico di Indo-Pacifico non è di esclusiva proprietà dei giapponesi e di Abe. Già nel 2004 e nel 2005, esperti di relazioni internazionali canadesi e australiani lo avevano usato per indicare la novità degli equilibri e delle dinamiche nell’area. Nel 2011, la premier Julia Gillard lo assunse pienamente in una nuova visione regionale per l’Australia, Paese del Pacifico a est e dell’Indiano a ovest. Da allora l’idea geopolitica legata al termine ha camminato ed è stata fatta propria dall’amministrazione Trump nel 2019 e sempre più dal governo indiano, in particolare dopo gli scontri di confine con truppe cinesi in Ladakh, la scorsa estate.
Attorno all’idea si sta ora sviluppando una collaborazione sulle questioni della sicurezza tra quattro Paesi – Giappone, Australia, India, Stati Uniti – che cooperano in un forum informale chiamato Quadrilateral Security Dialogue, in breve Quad: diverse vicende per anni non lo hanno fatto decollare ma, dopo un incontro a Manila nel 2017 tra i leader dei quattro Paesi, ha ripreso a funzionare anche in termini di collaborazione su materie militari. Abe definì la collaborazione il «diamante della sicurezza democratica dell’Asia». Più prosaicamente, il suo senso sta nella necessità di «gestire la crescita della Cina, che è la sfida distintiva dei nostri tempi», nelle parole di Walter Lohman, direttore del Centro di Studi sull’Asia della Heritage Foundation.
Due anni fa, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi aveva definito il Quad «schiuma di mare», cioè poca cosa che sparisce presto. Lo scorso 13 ottobre, invece, è tornato sul tema e lo ha definito «la cosiddetta Nato indo-pacifica». Per dire che si tratta di un rischio per la sicurezza che ha lo scopo di «strombazzare la mentalità da guerra fredda e di provocare lo scontro tra diversi gruppi e blocchi per alimentare la competizione geopolitica». Ora: il Quad non è un’alleanza militare e non è la Nato dell’Asia. Ma adesso che ha visto intensificarsi la collaborazione tra i quattro, soprattutto per la decisione di Modi di parteciparvi a pieno dopo gli scontri di confine con la Cina, Wang teme che un ampliamento del Quad ad altri Paesi della regione risponda al desiderio americano di allontanarli da Pechino, in linea con la determinazione di Washington di «disaccoppiare» la globalizzazione americana da quella cinese. Quindi, Wang presenta ora il quartetto come una minaccia alla stabilità regionale; critica che coinvolge anche Tokyo.
In effetti, il Giappone ha curato in modo particolare le relazioni con i Paesi della regione, soprattutto con i dieci dell’Asean, l’alleanza del Sudest asiatico, che Abe ha visitato tutti nel primo anno del suo secondo mandato. Si tratta di nazioni che hanno rapporti economici forti con la Cina, ma allo stesso tempo sono timorose di essere fagocitate dalla politica assertiva, e su alcune questioni territoriali aggressiva, di Pechino. È il caso del Vietnam, dell’Indonesia, di Singapore, delle Filippine. Devono camminare su un sentiero strettissimo, non schierarsi né con Washington né con Pechino.
Chose is to lose, «Scegliere è perdere», ha riassunto l’ambasciatore malaysiano in Cina, Raja Nushirwan Zainal Abidin. Si tratta di Paesi che vedono sé stessi come un polo autonomo nell’ordine mondiale in subbuglio, certamente non pedine delle due maggiori superpotenze. E in questo trovano l’appoggio di Tokyo, la quale ha una relazione forte con gli Stati Uniti, ma è cosciente dell’emergere dell’Asia non cinese come attore economico e politico e addirittura in alcuni casi come modello di governance dopo le buone gestioni della pandemia. Una Casa Bianca abitata da Joe Biden svilupperà le relazioni con il Giappone, certo, ma anche con le democrazie (qualche volta zoppicanti) dell’altra Asia.
In parallelo allo sviluppo di una strategia di maggiore proiezione internazionale dal punto di vista diplomatico, in alcuni casi con venature militari nonostante le costrizioni dell’articolo 9 della sua Costituzione pacifista, Tokyo ha incrementato la politica di aiuti allo sviluppo (15,5 miliardi di dollari nel 2019) e ha intensificato le collaborazioni regionali sulle infrastrutture in competizione con la Belt and Road Initiative cinese. Soprattutto, ha tenuto ferma e anzi promosso la TransPacific Partnership (Tpp) anche dopo che Trump l’ha abbandonata. Si tratta di un accordo commerciale tra 11 Paesi del bacino del Pacifico nelle trattative per il quale Abe ha svolto un ruolo di leadership essenziale che ha creato prestigio per il Giappone nella regione e oltre. In più la strategia delle tre frecce per fare uscire il Paese da anni di stagnazione, voluta dall’ex premier in collaborazione con la Banca centrale, è diventata un caso di scuola a livello internazionale, studiata sia negli Stati Uniti sia in Europa.
Il nuovo primo ministro Suga eredita dunque un Paese in movimento, ma anche le vecchie sfide del passato. Il rapporto ambiguo con la Cina di Xi e le possibili dispute sulle isole del Mare Cinese orientale; la storica, cattiva relazione con la Corea del Sud; le minacce della Corea del Nord; le possibili crisi attorno alla vicina Taiwan; e, in prospettiva, i probabili conflitti nel Mare Cinese meridionale, dove Tokyo non partecipa alle operazioni di Freedom of Navigation condotte dagli Stati Uniti, ma ha un interesse rilevante data la grande importanza del bacino sia per la Cina che per i Paesi dell’Asean.
Japan is back, dichiarò Shinzo Abe qualche anno fa. Non si riferiva solo all’economia – dove il Paese ha ancora problemi strutturali seri, a cominciare dalla demografia —, ma alla diplomazia e alla geopolitica. Quello di oggi è un Giappone che si è accorto che il mondo è di nuovo in un’era di competizione tra potenze. E si adegua. Forse racconta qualcosa anche all’Europa.