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 2020  novembre 14 Sabato calendario

1QQAFM10 Su "Disturbo della quiete pubblica" di Luca Bizzarri (Mondadori)

1QQAFM10

A me ha fatto molta tenerezza, Luca Bizzarri. Perché è ingenuo. Non in generale, ma si capisce che è fuori dal mondo letterario italiano. Voglio dire: siamo pieni di letterati mediocri che scrivono operine mediocri e se le premiano tra di loro. Dove ti giri ci sono salotti culturali e televisivi pieni di Carofiglio, Piccolo, Valerio, parrelle e murge varie, e lui pubblica un romanzo e ha paura di mandarmelo. Come se nel demi-monde mainstream imperversassero Flaubert, Kafka, Joyce, Faulkner, Beckett, Bernhard, Busi, me. Pure Arbasino è morto e da vivo non se lo filavano più di tanto, neppure un sorsetto di Strega (per fortuna).
Così sono andato in libreria, l’ho sfogliato e me lo sono comprato. Per respirare un po’ d’aria fresca, non letteraria. Ho pensato che Bizzarri era una iena simpatica, è un attore bravo, un comico che mi piace, peggio degli amici della domenica e di tutti gli altri giorni non può essere. Almeno così sospettavo, e ho avuto ragione. Il suo romanzo si intitola Disturbo della pubblica quiete, lo ha pubblicato Mondadori e è veramente carino, una storia semplice ma profonda, senza frasi fatte o metafore fradice come quelle degli stregati, una dark comedy tenera, pulita, comica e commovente. Ci sono due poliziotti che vengono chiamati perché un migrante africano sta prendendo a calci una porta, lo fermano, lo prendono e lo portano in macchina, ma non hanno nessuna intenzione di portarlo in caserma. Solo che questo vuole essere arrestato, perché?
Non troverete cliché ideologici, del tipo poliziotti cattivi e migranti buoni o viceversa. Tutti i personaggi sono vittime della vita, con i loro problemi, le loro frustrazioni, il loro desiderio semplicemente di essere più o meno felici. L’ispettore ha una vita insoddisfacente, una figlia che lo odia. Il suo collega aspetta che una donna con cui ha una relazione gli dica di raggiungerlo. Entrambi sono persi nel loro mondo, hanno solo voglia di tornare a casa, e non di perdere tempo con lui, Mamadou Okigbo, questo senegalese che vuole finire in prigione. E la cui voce, a un certo punto, diventerà preponderante nel libro, raccontando la sua storia, senza la retorica con cui l’avrebbe raccontata Saviano, tanto per dirne un altro. «A me quando mi chiamano negro mi piace. Mi dà un senso di forza, di potenza: negro è una bellissima parola, ha dentro millenni di storia, di sofferenze, ma anche di orgoglio, di teste che non si sono mai abbassate veramente, di schiene che si sono piegate, spezzate, ma che sono rimaste lì. Anzi più sento il disprezzo in chi mi dice negro, più percepisco anche la paura, il rispetto. Io sono negro».
In Italia incontra una libraia e se ne innamora, ma incontra anche un marocchino, Zbir, che buono non è, perché così sono gli esseri umani, buoni o cattivi a prescindere da dove vengono. Zbir la sa lunga e ti spiega per esempio come mai compriamo cianfrusaglie dagli ambulanti africani: «Non è che ce li comprano perché siamo noi a venderglieli. Perché in un mercato che li mette sempre nella posizione del più debole, con noi hanno finalmente una posizione di forza. Soprattutto se tutti i giorni in ufficio, al lavoro, in casa, vivi coi piedi di qualcuno perennemente sulla testa».
È un romanzo d’amore, anche, anzi soprattutto. Perché tutti cercano l’amore, o lo hanno perduto per sempre. Tutta questa piccola commedia umana malinconica finisce in tragedia, perfino con una citazione di Breat Easton Ellis, l’ultima frase di American Psycho: «Questa non è un’uscita». Bizzarri in realtà un’uscita cerca di darla, ma è una lettera d’amore rispedita al mittente. Insomma, se volete sapere perché il negro vuole andare in prigione e tutto il resto leggete il libro. Io dico solo bravo Bizzarri, e tieniti lontano dai circoli di zombi dei letterati, se ti mordono loro è finita.