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 2020  novembre 14 Sabato calendario

Intervista a Fabrizio Corona

Fabrizio Corona, com’è la storia dell’omicidio commissionato ai suoi danni?
«Quale dei due?».
Spazio per tutta l’autobiografia che ha appena portato in libreria non ne abbiamo. Ne scelga uno.
«Le spiego della volta con gli albanesi. C’era un mio cliente, nipote di un celebre potente della storia d’Italia».
Prima di fare il nome: l’ha denunciato?
«Io non denuncio mai».
Allora, niente nome.
«Come vuole. Nel libro, c’è. Insomma, mi fa causa: secondo lui, gli dovevo dei soldi. Ma la regola della malavita è che, se fai causa, non puoi mandare il recupero crediti».
In che senso?
«Se hai messo le carte in mano alla polizia, alla legge, non puoi mandare il balordo a pestare il debitore: se no, la polizia fa due più due. Non puoi stare col male e col bene. Chiaro?».
A spanne. Quindi?
«Arrivano in ufficio due albanesi. Uno dice: Corona, hai un problema con xx, vedi di dargli i soldi. E io: ah sì? Usciamo e vediamo. Scendo, il mio autista mi segue e scatta la rissa. Accorrono baristi, tabaccai, gli albanesi scappano. Dopo un po’, un tale mi dice che c’è uno pesante di una famiglia balorda che mi vuole parlare. Era grossissimo e sul cucuzzolo della testa aveva tatuata la sigla Acab: all cops are bastards, tutti i poliziotti sono bastardi. Mi fa: sono venuti due albanesi per comprare una pistola e noi, prima di vendere una pistola, vogliamo sapere a che serve».
E a che serviva?
«A uccidermi o gambizzarmi. Il soggetto con Acab sulla testa, poi condannato a 21 anni con aggravanti mafiose, dice che lui e suoi si sono messi di mezzo perché mi rispettano. Insomma, combiniamo un appuntamento, lui, io, gli albanesi, il creditore. Che ha capito il messaggio e non s’è più visto. Però, in questi casi, devi stare attento che non ti capiti un cavallo di ritorno».
Il «cavallo di ritorno», ora, che sarebbe?
«Che un malavitoso ti fa un favore, ma per avvicinarti e ottenere qualcosa di peggio».
La sua incolumità è ancora a rischio?
«No, ma penso che morirò ammazzato».
Perché mai?
«Ho fatto sei anni di carcere, anche con criminali efferati di cui ho dovuto essere amico per salvare la pelle e che, quando escono, sanno dove trovarmi. Ora, arrivano e dicono: prestami diecimila euro. E io: “sto cavolo”. Poi, dai domiciliari, esco per andare allo Smi, un centro di recupero di esecuzione penale, e trovo altri criminali, che pure vogliono favori. Prima, davo retta, ora, li mando a quel paese. Ma è gente che se la prende. Tanti mi vorrebbero morto».
Tutto è iniziato con le condanne per i fotoricatti e ora siamo oltre. Sa che il suo libro sembra la biografia di un criminale italiano?
«Non sono un criminale, sono un furbo che non ha fatto male alla povera gente, ma ha sfruttato e fregato un sistema già corrotto. Ora ho incontrato tante case di produzione per trattare i diritti per film e docuserie e tutti mi hanno detto: non pensare che ne esci bene. Sicuramente è così, ma anche Il Lupo di Wall Street, quando ha dato i diritti, era una persona diversa da quella che si vede nel film».
Perché il titolo è «Come ho inventato l’Italia»?
«Da quando quattordicenne mi sono tuffato in una piscina vuota, ho battuto la testa e non sono più stato l’angelo che ero, ho vissuto dall’interno tutto quello che ha segnato questo Paese: la moda, Tangentopoli, il berlusconismo... Ora immagino d’aver creato questo mondo a mia immagine e somiglianza perché l’ho strumentalizzato, ci ho guadagnato e l’ho colpito da anarchico. Il mio obiettivo era entrarci per distruggerlo, perché mio padre, da quel mondo, è stato sconfitto e io l’ho voluto vendicare».
Perché suo padre Vittorio Corona era da vendicare?
«Era un grande giornalista ed è stato fatto fuori dal sistema. Dalla Rai, nel ‘92, per un titolo sui politici e la Cupola; da Mediaset, perché non appoggiò Berlusconi nel ’94. Andò alla Voce con Indro Montanelli e quando hanno chiuso, non ha più potuto lavorare».
Non è che l’Italia lei l’ha peggiorata, non inventata?
«Anche. Il “popolo di Corona” vede solo il lato nero: che ho belle donne, soldi, mando a quel paese i magistrati. Il mio è un mito negativo».
Se l’è costruito lei, coi soldi falsi lanciati in autostrada, i soldi in nero nel controsoffitto, gli insulti ai giudici.
«Mi sentivo il protagonista di una storia d’ingiustizia e ho cavalcato quello storytelling con la follia di chi pensava di non pagare le conseguenze. Poi, davanti al macigno di una pena di 14 anni cumulativa, ho capito di aver sbagliato».
Scrive di continuo «sono Dio». Di notte, a luce spenta, si sente ancora un dio?
«Mi vengono i flashback come ai reduci del Vietnam. Senza sonniferi, non dormo. Spesso rivedo un suicidio terribile dell’estate 2019: un detenuto con una pena di tre anni, dopo una brutta telefonata, con gente che urlava e guardie che non arrivavano, si è appeso al collo il lenzuolo e l’ho visto spirare sotto i miei occhi».
Come è riuscito a farsi pubblicare dalla Nave di Teseo, la casa editrice dell’intellighenzia milanese?
«Semplice: in galera leggo, studio e mi si accendono lampadine. Per cui, ho scritto un appunto: fissare appuntamento con l’editore Elisabetta Sgarbi. Mi ha trovato intelligente, mi ha pubblicato e mi ha fatto conoscere tutta la Milano più intellettuale. Anche la vedova di Umberto Eco. Mi ci sono trovato a mio agio».
Il libro è ben scritto e la domanda che circola è: l’ha letto prima di pubblicarlo?
«Non ho un ghostwriter. Ho il dono della scrittura».
Come si è rotto l’anulare?
«L’ho spaccato apposta in carcere: dovevo lanciare un marchio su una maglietta e avevo bisogno di uscire e farmi fotografare. Mi hanno portato cinque volte all’ospedale e ho fatturato 50 mila euro».
Cos’è il denaro per lei?
«La mia grande malattia: mi dà il senso del successo e dell’identità. Sto cercando di curarmi con due psichiatri».
Fine pena a febbraio 2024.
«Vorrei la grazia. Per la sproporzione della pena e per come sono cambiato».
Perché, nel libro, sua madre è sempre nella sua testa?
«La chiamo di continuo, ma da piccolo mi sentivo sempre il meno amato. Il mio auto-sabotaggio nasce lì: se amo e sono bravo, temo di restare fregato. A Nina Moric e a Belén ne ho fatte di ogni. Infatti, oggi so che non era amore. E anche nella vita ne ho combinate sempre tante per dirmi che me l’ero cercata».