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 2020  novembre 14 Sabato calendario

12QQAN40 QQAN10 Cosa ha scritto Obama nell’autobiografia

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L’elezione di Barack Obama, il 4 novembre 2008, fu interpretata, negli Stati Uniti e nel mondo, come l’inizio di una nuova era: l’America si gettava alle spalle una storia di pregiudizi e rancori ed entrava nella stagione della società multietnica. Senza conflitti troppo aspri coi conservatori, visto che il senatore John McCain, l’avversario repubblicano sconfitto, si era subito congratulato col vincitore dicendosi pronto a collaborare. Non andò così. Anzi, l’elezione di un presidente di colore ebbe l’effetto opposto sulla destra americana, quasi uno choc anafilattico: «La mia semplice presenza alla Casa Bianca innescò una profonda ondata di panico, la sensazione che l’ordine naturale delle cose fosse stato demolito». È questo uno dei passaggi più dolorosi e drammatici di Una terra promessa, il primo volume di memorie presidenziali di Obama che verrà pubblicato martedì 17 novembre in tutto il mondo (in Italia è edito da Garzanti).
La narrazione dell’ex presidente – densa di riflessioni politiche ma anche di notazioni umane, dall’impatto della Casa Bianca sulla tenuta del matrimonio con Michelle alla nostalgia per i momenti irripetibili vissuti con Sasha e Malia adolescenti – va dall’inizio della sua carriera politica all’eliminazione di Osama bin Laden il 2 maggio 2011. Le considerazioni sui quattro anni dell’amministrazione Trump le troveremo nel prossimo volume, ma già qui Barack analizza la diabolica capacità mediatica di The Donald, il suo intuito, e confessa di aver sbagliato, sottovalutandolo.
Le sortite dell’allora immobiliarista miliardario e star televisiva di The Apprentice venivano viste alla Casa Bianca come buffonate. Dalle anticipazioni del libro pubblicate in questi giorni dalla stampa americana emerge che Obama si rese conto solo gradualmente che la continua presenza di Trump sui media, la faccia tosta con la quale diceva cose false o ricorreva ad eccessi verbali erano semplicemente la versione estrema dei tentativi dei repubblicani di seminare ansia per la nomina di un presidente di colore: un sentimento «che si era trasferito dalle frange estreme del partito conservatore al suo centro, una reazione emotiva, quasi viscerale alla mia presidenza, un fenomeno che non aveva nulla a che fare con le differenze politiche e ideologiche» tra destra e sinistra. Obama, che a suo tempo ridicolizzò gli incredibili tentativi di Trump di negare la legittimità della sua elezione creando la leggenda di un Barack nato fuori dagli Stati Uniti, ora riconosce che il panico della destra per l’elezione di un nero, «è esattamente quello che Trump intuì subito quando cominciò a parlare della mia presidenza come illegittima. Il suo fu un elisir offerto a milioni di americani spaventati dall’uomo nero alla Casa Bianca».
Più che sull’«anomalia» Trump, l’attenzione di Obama si concentra sulla trasformazione di un partito repubblicano sempre più radicalizzato che ostacolò in tutti i modi il suo lavoro di presidente anche attraverso i leader delle Camere, Mitch McConnell e John Boehner, che avrebbero dovuto essere gli uomini del dialogo. Le prime avvisaglie arrivarono già prima della sua elezione, col moderato John McCain che scelse la radicale Sarah Palin per il suo ticket della campagna presidenziale 2008: «Con la Palin gli spiriti maligni che erano rimasti ai margini del partito repubblicano moderno – xenofobia, ostilità nei confronti degli intellettuali, teorie cospirative paranoiche, antipatia per gli afroamericani e per gli ispanici – finirono al centro del palcoscenico». Obama si chiede se McCain avrebbe scelto la Palin se avesse saputo che «la sua spettacolare ascesa avrebbe funzionato da trampolino per nuovi politici, facendo scivolare il centro del suo partito e della politica nazionale verso direzioni da lui stesso detestate». E conclude che il suo avversario del 2008, «un uomo che metteva l’interesse del suo Paese davanti a tutto, avendo la possibilità di tornare indietro, avrebbe fatto scelte diverse».
L’allarme per l’involuzione del partito repubblicano Obama la ribadisce anche nell’intervista a 60 minutes che la rete televisiva Cbs trasmetterà domani: parlando del rifiuto di Trump di riconoscere la vittoria elettorale di Biden, Barack afferma che «queste illazioni sulle frodi elettorali dipendono dal fatto che al presidente non piace perdere, non ammetterà mai la sconfitta. Mi allarma di più il fatto che altri leader repubblicani lo assecondino in questo modo: è un altro passo non solo verso la delegittimazione della presidenza Biden, ma della democrazia in generale. Stiamo imboccando una strada pericolosa».
Obama racconta di aver scelto Joe Biden come vice (dopo aver considerato e scartato Hillary Clinton, troppo complicata anche per la difficoltà di trovare un ruolo all’ex presidente Bill) «perché sarebbe stato più che pronto a servire come presidente se mi fosse successo qualcosa. E poi Joe avrebbe potuto rassicurare con la sua presenza quelli che pensavano che io fossi troppo giovane. Ma, soprattutto, contava il mio istinto profondo: lo percepivo come onesto, in gamba, leale. Pensavo che nei momenti difficili non mi avrebbe deluso».
I momenti duri arrivarono con la battaglia per la riforma sanitaria: «Lo usai come intermediario nella trattativa coi leader repubblicani del Congresso non solo per la sua lunga esperienza di senatore e il suo acume come legislatore, ma anche perché pensavo che nella mente di McConnell negoziare col vicepresidente sarebbe stato preferibile: non avrebbe incendiato la base repubblicana quanto la cooperazione col (nero, musulmano e socialista) Obama». L’ex presidente si sofferma, poi, sulla prudenza del suo vice – ora suo successore – sugli impegni militari all’estero: contrario al blitz dei Navy Seals in Pakistan che portò all’eliminazione di Osama e scettico sulla guerra in Afghanistan, tanto che il ministro della Difesa, Robert Gates, gli dava del naysayer, una sorta di ostinato signornò.
La riforma sanitaria, la grande battaglia della sua presidenza, è descritta in modo minuzioso. Non solo la difficoltà delle trattative coi repubblicani, ma anche la resistenza dei suoi stessi collaboratori, da David Axelrod a Rahm Emanuel, convinti che sarebbe stato difficile far accettare all’opinione publica un allargamento del ruolo dello Stato sulla salute dei cittadini. Ma anche le pressioni di leader come Ted Kennedy che lo incalzavano: «Ora o mai più». È il racconto di un Obama che deve accontentarsi di una riforma dimezzata, travolto dalla veemenza della destra (lui stesso chiama la riforma Obamacare, termine coniato dai repubblicani con intenti denigratori), e maltrattato a sinistra quando, per salvare il salvabile, rinuncia all’opzione di un sistema pubblico.
Nel libro Obama racconta la sua esperienza presidenziale con tono spesso autocritico. Rivendica meriti con forza, senza chiaroscuri, solo quando parla dello stimolo fiscale e delle altre manovre con le quali, scrive, evitò una depressione e consentì all’economia Usa di riprendersi dalla Grande recessione del 2008 più rapidamente degli altri. Ma ammette anche i suoi fallimenti, a partire dalla rinuncia alla riforma dell’immigrazione: «Una pillola amara da inghiottire». Sulla sanità riconosce di essere stato troppo ottimista: «Mi sembrava che la logica della riforma fosse talmente ovvia» da bloccare l’opposizione. Sbagliava per mancanza d’esperienza: estraneo ai complessi giochi politici di Washington pur essendo stato presidente per otto anni. Lo confessa lui stesso raccontando con franchezza un aneddoto: alla ricerca di meccanismi di governo più trasparenti e di un rapporto più diretto coi cittadini, un giorno Obama propone al suo capo di gabinetto, Rahm Emanuel, di neutralizzare il lavoro sottobanco delle lobby e le obiezioni pretestuose dei repubblicani, trasferendo tutto il negoziato sulla riforma in tv: trasmesso in diretta dalla rete non profit C-SPAN. «Quando spiegai a Rahm la mia idea» racconta Obama, «capii dai suoi occhi che avrebbe voluto che non fossi il presidente degli Stati Uniti per potermi spiegare col suo linguaggio colorito la stupidità del mio piano. Se volevamo il passaggio della legge, mi disse, avremmo dovuto affrontare un percorso complesso, raggiungendo, per strada, decine di accordi e accettando decine di compromessi: non era roba da gestire come un seminario pubblico».
Il rapporto con Michelle torna continuamente nel libro, anche con i suoi momenti difficili e l’impatto pesante della presidenza sul matrimonio: «Nonostante il successo e la popolarità di Michelle, sentivo in lei una tensione sotterranea, sottile ma costante, come il debole ronzio di una macchina nascosta. Era come se, chiusa tra le mura della Casa Bianca, tutte le precedenti cause di frustrazione fossero diventate più forti e concentrate». E poi la tensione «per un’esposizione politica che ci sottoponeva a uno scrutinio continuo anche come famiglia». Non giovava «la tendenza anche di amici e parenti a trattare il suo come un ruolo di secondaria importanza». Tensioni stemperate una volta lasciata la Casa Bianca.
Barack confessa anche la dipendenza dal fumo: abitudine nascosta della quale però molto si parlò. Fumava una decina di sigarette al giorno, sempre alla ricerca di «un luogo discreto per una fumatina serale». Smise masticando senza sosta gomme a base di nicotina: «Smisi quando vidi Malia aggrottare la fronte dopo aver sentito il tabacco nel mio alito».
E, più ancora che della Casa Bianca – un’esperienza conclusa quando era ancora molto giovane – Obama ha nostalgia dei momenti che non torneranno più dell’adolescenza delle figlie: il ricordo di Malia che si dimenava nella sua prima calzamaglia per la danza o la piccola Sasha che rideva felice quando le faceva il solletico sotto i piedi.