Più che le memorie di un editore sembrano quelle di uno scrittore, per il modo leggero, intrigante, cosy si sarebbe detto un tempo, di avvicinarsi ai personaggi e alle storie che hanno attraversato la sua vita.
Insomma Mario Andreose racchiude sessant’anni di esperienze, per lo più letterarie in Voglia di libri (edito da La nave di Teseo) fissando un tipo umano particolare: l’homo editors. Nato a Venezia, trapiantato a Milano, Andreose ha percorso tutti i gradi di una lunga carriera: da correttore di bozze a direttore editoriale (Il Saggiatore, Mondadori, Fabbri, Bompiani e ora La nave di Teseo). Del mondo dell’editoria conosce le fragilità e gli slanci, i sogni (quando si imbocca un filone) e gli incubi (quando l’azienda traballa).
Sei più un uomo di idee o di numeri?
«Una volta un dirigente dell’Ifi, società di investimento e azionista del Gruppo Fabbri mi disse: "Sei uno che gestisce il budget come se fossero soldi tuoi". Spero di aver fatto lo stesso lavoro con le idee degli altri».
Hai vissuto e continui a vivere in mezzo ai libri. Quale è stato il primo in cui ti sei imbattuto?
«Era il Don Chisciotte illustrato dal Doré, estratto a caso dalla biblioteca di uno zio. Avevo 10 anni, relegato in convalescenza per una malattia infettiva. Dulcinea del Toboso è stata la prima eroina di cui mi sono innamorato, incurante delle denigrazioni di Sancho».
Veneziano, ti trasferisci ventenne a Milano. Che città era e cosa è diventata?
«Fu per me un po’ la terra promessa. Sapevo che vi avrei trovato lavoro, l’obiettivo era fare il giornalista, ma la prima occupazione arrivò con i libri. Ancora oggi, nonostante tutto quello che sta accadendo, è una delle migliori città in cui vivere».
Il primo che ti ha dato un’opportunità è stato Alberto Mondadori. Come lo ricordi?
«Quando mi assunse, aveva appena fondato Il Saggiatore; credo che l’abbia fatto, tra l’altro, per sottrarsi all’ingombrante influenza paterna».
La sua fu un’impresa bellissima e fragile.
«Era un vulcano di idee, un po’ meno a suo agio con i numeri. Veniva da un’esperienza fondamentale svolta in Mondadori. Aveva fondato e diretto Epoca, creato la collana di poesie "Lo Specchio". Aveva tutti i requisiti per realizzare il proprio sogno editoriale».
Si dice che frequentasse donne, bevesse whisky e progettasse libri. In che ordine secondo te?
«C’è molta leggenda attorno alle sue imprese. Ebbe una vita sentimentale molto istituzionale e dopo la moglie una compagna per il resto della vita. Quando si distaccò dalla Mondadori smise di bere. Si disintossicò in una clinica svizzera e cominciò a pensare a una nuova casa editrice. Sembrava il protagonista della Montagna incantata. Per dar vita a Il Saggiatore chiamò i compagni di università, allievi di Antonio Banfi, ai quali si aggiunse, come primus inter pares, Giacomo Debenedetti».
Quella del Saggiatore fu una straordinaria stagione per la saggistica. Perché a un certo punto la casa editrice entrò in crisi?
«Perché mutò la temperie culturale sfociata nel clima iconoclasta del Sessantotto. Sartre, de Beauvoir, Lévi-Strauss, autori emblematici del Saggiatore, furono sostituiti da Marcuse e da una pubblicistica usa e getta legata alla contestazione. Per reagire alla crisi Alberto imboccò la strada dello sviluppo: pensava che più era grosso e più aveva possibilità di restare in piedi. Si lanciò in investimenti senza ritorno. Qualcosa di analogo sarebbe accaduto, qualche anno dopo, all’Einaudi».
So che ti affidarono la ristrutturazione della casa editrice. Come te la cavasti?
«Fu Arnoldo Mondadori in persona a chiedermelo. Per salvare quello che si poteva. La sede della casa editrice era diventata un bivacco dove, insieme ai redattori, stazionavano anche studenti della Statale. Era un gran casino. Non me la sentivo di chiamare la polizia per lo sgombero. Furono settimane infernali. Poi arrivò una provvidenziale offerta da Mondadori».
Che cosa ti offrirono?
«Di progettare libri e collane illustrate da stampare e vendere anche all’estero. Fu Mario Formenton a chiedermelo, proponendomi un trasferimento a Verona, presso le loro Officine Grafiche. Era l’autunno caldo del 1969, poco dopo ci sarebbe stata la strage di Piazza Fontana. L’aria di Milano era improvvisamente diventata irrespirabile. Avevo due figli da crescere e pensai che trascorrere un paio d’anni fuori mi avrebbe fatto solo che bene. Ci sono rimasto nove anni. Per poi andare al Gruppo Fabbri».
Come avvenne il passaggio?
«Erich Linder, amico e agente letterario, mi segnalò all’amministratore delegato di allora. Cercavano un nuovo direttore editoriale. Accettai la sfida, trovando i conti del gruppo traballanti, soprattutto nel settore delle edizioni scolastiche, quasi colate a picco causa eccessi ideologici sessantottini».
Il Gruppo Fabbri comprendeva tra l’altro la Bompiani. Il tuo successivo approdo.
«Dopo l’uscita di Valentino nel 1971, la Bompiani aveva cambiato direttore quasi ogni anno. Vi entrai nel 1982 e nel 2000 indicai in Elisabetta Sgarbi la persona più adatta a succedermi».
Arrivasti in Bompiani un paio di anni dopo la pubblicazione de "Il nome della rosa".
«Il romanzo di Eco uscì nel 1980, nel 1981 vinse lo Strega. Il mio compito principale in quel momento fu concentrarmi sulle vendite dei diritti all’estero».
Non tutti all’estero compresero la potenzialità commerciale di quel romanzo.
«Significativo fu il rifiuto di François Wahl, l’editore di Seuil dove Eco pubblicava da anni. Oltretutto erano amici, ma Wahl reputava un errore il suo passaggio al romanzo. Per contro si era innamorato dei romanzi di Tondelli. Comunque Il nome della rosa uscì per Grasset. Wahl provò a rimediare al suo errore chiedendogli i successivi romanzi. Ma Umberto fu irremovibile nel rifiutarglieli».
E negli Stati Uniti?
«Sai, gli editori americani guardavano agli autori italiani come a un fatto esotico. Fino agli anni ’80 nei risvolti di copertina dei romanzi di Moravia, ancora editi da Farrar, Straus & Giroux, si poteva leggere: "l’autore vive a Capri e gira con un pappagallo sulla spalla", con tanto di foto.
Puro Totò a colori! Anche la Farrar Straus rifiutò il romanzo di Eco, l’editor David Rieff, figlio di Susan Sontag, gli preferì Il giorno del giudizio di Salvatore Satta».
Alla fine chi acquistò i diritti?
«Fu grazie al fiuto di Helen Wolff, poliglotta e di origine serba, che Il nome della rosa fu pubblicato dalla Harcourt Brace per un anticipo di soli seimila dollari. Una cifra irrisoria visto il successo».
Con Eco hai avuto una lunga consuetudine di lavoro.
Nei suoi rapporti umani dava l’impressione di non lasciarsi mai coinvolgere.
«C’era in lui la paura di disperdere il proprio tempo. I sentimenti erano un dono per pochi. Un saggio, un articolo, un corso da impostare, un capitolo da riscrivere, una conferenza, un intervallo musicale con il flauto dolce, le lezioni americane, una laurea onoraria, i viaggi in tutto il mondo per lavoro: aveva delle priorità».
Nel tuo libro accenni alla sua giovinezza. Ti ha mai parlato di quel periodo?
«No, salvo qualche sprazzo casuale. Comunque tra un po’ leggeremo una sua "autobiografia intellettuale", assai tosta».
Tosta perché?
«Ti dico solo questo: una volta avrebbe voluto pubblicare, in edizione per gli amici, i suoi scritti di militanza cattolica, dal liceo fino alla tesi, in occasione della quale perse la fede. Ma poi non se ne fece nulla».
Gli sei stato accanto negli anni della malattia. Come ha vissuto gli ultimi mesi?
«Rimpiangeva che la fine comportasse la dispersione del suo patrimonio del sapere ancora da destinare agli altri. Mi colpì l’epigrafe che aveva tratto dalla Città del sole di Tommaso Campanella: "Aspetta, aspetta… non posso non posso"».
Il passaggio dalla Bompiani alla Nave di Teseo fu da Eco fortemente voluto. Cosa significò scoprirsi editore?
«Non editore, ma fondatore e azionista di maggioranza è stato il ruolo che si è scelto, e con un buon motivo. Nelle poche settimane di vita che gli restavano, dopo la fondazione della "Nave", seguiva con attenzione le vicende più rilevanti. Un giorno mentre lo ragguagliavo su alcune cose, mi interruppe e con un sussurro mi chiese: "ma lo svizzero arriva?". Gli risposi che Elisabetta me l’aveva appena confermato. Lo svizzero era Joël Dicker, da noi lanciato in precedenza con il suo primo romanzo che aveva venduto seicentomila copie».
Eco amava il suo più grande successo editoriale?
«A Il nome della rosa lo legavano piuttosto gli altri, costringendolo a girare il mondo per la promozione del libro. Alla fine ne era quasi infastidito. Il pendolo di Foucault, che gli richiese otto anni di lavoro, era una sfida indispensabile per sottrarsi a un destino di one book man. Ma soprattutto per un cambio di registro narrativo: dal ritorno dell’intreccio della Rosa alla costruzione joyciana del Pendolo. Un romanzo che l’autore amava paragonare a una sinfonia di Mahler».
Nel tuo periodo alla Bompiani sei stato tra gli artefici dell’arrivo di Sciascia. Perché divorziò dalla Sellerio?
«Nella lettera che mi scrisse di accettazione della mia proposta di passare alla Bompiani come autore e consulente accennò a una "cocente delusione" dopo anni di dedizione disinteressata. Mi sono fatto l’idea che il tutto attenesse alla sfera degli affetti privati».
Con Alberto Moravia hai lavorato per un decennio. Gli hai mai chiesto com’era riuscito da giovane a scrivere un romanzo straordinario come "Gli indifferenti"?
«No, mi fece però capire che la reclusione di ragazzo malato e il rifugio nella lettura compulsiva di autori come Dostoevskij e Goldoni gli avessero indotto una carica imitativa. Considerava il commediografo veneziano come proprio maestro del dialogo».
Quanto gli ha pesato quell’esordio folgorante?
«Beh, l’ansia fu inevitabile e anche la delusione per come venne accolto il secondo, Le ambizioni sbagliate. Però quell’esordio gli cambiò la vita: salotti, contesse, inviti in America, al gruppo di Bloomsbury, ingaggi giornalistici. Cominciò a passarsela bene».
Ci sono scrittori di un solo grande romanzo?
«Pasternàk, Tomasi di Lampedusa, D’Arrigo, Malraux, Salinger, Garcia Màrquez, anche se ne ha scritti altri».
Tra gli scrittori che hanno imposto un modo nuovo di narrare c’è Tondelli. Che impressione avevi di lui?
« Rimini, il libro che segnò il cambio, propiziato anche dalla sua vicinanza con la narrativa americana contemporanea, coincise con il momento più felice della sua tormentata vita. Pensa, aveva scoperto anche Piero Chiara. Avrebbe voluto diventare il cronista della riviera romagnola, una "nuova California", diceva».
Si racconta a proposito del romanzo della leggendaria festa al Grand Hotel di Rimini. Tu c’eri?
«Certo che c’ero. Sembrava la festa finale della Dolce vita. Trovai di tutto: nobildonne, critici, scrittori, rockettari traballanti, casalinghe inquiete, imbucati, venerati maestri e qualche stronzo. Sembrava un nuovo capitolo da aggiungere al romanzo. Nessuno immaginava che in quel 1985 Pier Vittorio avrebbe avuto ancora solo sei anni di vita».
Scrivendo di Saul Bellow accenni alla sua longevità sessuale, paragonandola a quella di Picasso. Cos’è il sesso nella vecchiaia?
«Pare che sia: "Non penso ad altro". Quando Umberto lesse il mio pezzo su Bellow mi disse: "Bello il Bellow. Stai per caso pensando di ridiventare padre?"».
Come vivi questa fase della tua vita: ti senti migliorato o peggiorato?
«Non mi sembra che sia granché cambiata. Lavoro come sempre e mi sento migliorato perché ora ne so molto di più».
Mi incuriosisce che tu abbia dedicato al tennis l’ultimo capitolo di "Voglia di libri". Davvero, come qualcuno pensa, è lo sport più metafisico e letterario che ci sia?
«Più che la metafisica chiamerei in causa l’estetica del gesto. L’ho scoperto leggendo Gianni Clerici. Ma è uno sport che ho praticato solo in età adulta. Da ragazzo non frequentavo il giardino dei Finzi Contini».