Robinson, 14 novembre 2020
Il saggio di Susan Sontag sulla malattia
Nel corso degli anni Settanta Susan Sontag s’ammala di tumore. La scrittrice americana deve perciò sottoporsi a sedute di chemioterapia. Negli ospedali americani e francesi che frequenta incontra altri malati come lei, e finisce così per constatare il senso di disgusto e quasi di vergogna che essi provano, cosa che a lei non capita. Gli viene da pensare che le fantasie di cui i malati di cancro sono prigionieri siano l’esatto opposto delle vecchie idee sulla tubercolosi da tempo screditate. Mentre la tbc nell’Ottocento era considerata una malattia che potenziava l’identità, il cancro appare invece come una degradazione dell’io, tanto da indicare una responsabilità dei singoli nel suo manifestarsi. Sarebbero le persone sconfitte psichicamente, incapaci di esprimersi, represse sessualmente, a scatenare questa malattia. Invece di raccontare la propria esperienza scrive un saggio imperniato sul confronto tra la tubercolosi e il tumore. Nel 1978 esce Malattia come metafora, un libro che sin dall’inizio dichiara la volontà di scandagliare, non la malattia in sé, ma il suo uso figurato e metaforico.
La prima osservazione che fa riguarda l’uso di immagini e metafore belliche rispetto al cancro: l’invasore, la guerra alla malattia, la battaglia contro il male. Mentre nella letteratura del XIX secolo la tubercolosi appare come una patologia che accende il desiderio, eccita i sensi e rende febbrili, consumando nel contempo il corpo, il cancro è considerato desessualizzante e repellente. Nel parallelo, fatto utilizzando racconti, romanzi e poesie, Susan Sontag arriva a definire la tbc una malattia dell’anima e il cancro del corpo. Invece di rivelare qualcosa di spirituale, come accade nelle fantasie intorno alla tubercolosi, il tumore mostra «che il corpo è, malauguratamente, solo un corpo». Georg Groddeck, lo psicoanalista selvaggio che ha ispirato Freud, nel Libro dell’Es ( 1923) stabilisce tra i primi un rapporto tra il cancro e la morte, e sviluppa l’idea che la repressione delle pulsioni e dei propri desideri sia la causa del suo sorgere. In definitiva sia il tumore che la tubercolosi sono malattie della passione, seppure in forma opposta e rovesciata. Con la tbc sarebbe sorta l’idea della malattia individuale, e la convinzione che si diventa più consapevoli quando s’affronta la propria morte. Tutto questo manifesta l’emergere d’una idea moderna di individualità che nel corso del XX secolo ha assunto una forma sempre più aggressiva. La nostra epoca, scrive, ha una particolare predilezione per le spiegazioni psicologiche delle malattie, forse per il fatto che «psicologizzare dà l’impressione di fornire un controllo su esperienze ed eventi su cui, di fatto, si ha un controllo scarso o nullo».
L’impatto che il libro, e il successivo saggio L’Aids e le sue metafore ( 1988), hanno avuto sull’idea di malattia è stato notevole, per quanto da molte parti sia stato criticato, dal momento che appare praticamente impossibile parlare di qualsiasi cosa senza ricorrere alle metafore, cosa che del resto fa la stessa Sontag nel suo saggio. Riletto oggi a quarant’anni di distanza nella nuova traduzione di Paolo Dilonardo, Malattia come metafora, insieme al successivo L’Aids e le sue metafore ( nottetempo), fornisce molti spunti di riflessione sulla situazione che stiamo vivendo.
Il Covid 19 non è esattamente una malattia misteriosa, come lo sono state la tbc e il tumore, il quale ancora lo resta, bensì un agente patogeno; tuttavia le metafore che hanno segnato l’insorgere della pandemia sono state ancora una volta prelevate dal repertorio bellico. Se oggi Susan Sontag potesse scrivere dei discorsi pubblici e privati riguardanti il coronavirus, sono sicuro che metterebbe l’accento sulle metafore che riguardano le questioni ecologiche, diventate il centro del nostro immaginario. L’idea che l’epidemia sia il risultato della distruzione del Pianeta perpetuata dagli esseri umani ci parla delle fantasie del disastro che abitano le nostre menti da molti decenni, in un oscillare continuo di rimozioni e rinnovati ritorni. Non che l’Homo sapiens sapiens non sia colpevole di disastri e nefandezze verso la Natura, anzi. Ma a Susan Sontag, come a ogni vero intellettuale – genere in via di scomparsa – interessa capire il “come”, da cui discende sempre il” perché”. Per questo ha lavorato sul linguaggio e ne ha smontato i meccanismi e le forme. Nelle pagine finali del libro dedicato all’Aids parla della diffusione delle epidemie generate dal frenetico scambio di uomini e merci, del virus come metafora della civiltà informatica, allora agli esordi, dei temi dell’invisibilità e dell’immaterialità del sistema economico contemporaneo. Il Covid è la perfetta metafora di qualcosa che colpisce senza che noi possiamo vederlo, il corrispettivo di una economia guidata da regole invisibili che condiziona da lontano le nostre vite e a cui sembra di non poterci in alcun modo sottrarre.