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 2020  novembre 14 Sabato calendario

Amis & Rushdie, il metodo dello scrittore


SALMAN RUSHDIE: «Questo è un libro molto insolito, Martin».
MARTIN AMIS: «Sì, è vero. Non è che ricercassi l’originalità a tutti i costi, ma continuavo a pensare: "Non credo che esista un altro libro fatto in questo modo"».
RUSHDIE: «Non assomiglia davvero a nessun’altra cosa che ho letto. Nel libro parli di autonarrativa, e non dà la sensazione di assomigliare a Karl Ove Knausgård o Amélie Nothomb, o in generale a quegli scrittori che si dice facciano autonarrativa».
AMIS: «Forse vale la pena di dire che ho cominciato questo romanzo diciotto anni fa. Ma mi sentivo limitato, costretto a scendere a compromessi, perché stavo facendo un’opera di narrativa su persone reali. E penso ancora che sia una libertà straordinaria da prendersi. È stato solo dopo la morte di Christopher Hitchens, nel 2011, che mi sono sentito motivato a tornare su questo libro. Il fatto che tutti i protagonisti siano morti, triste a dirsi, sembrava lasciarmi un certo margine di manovra. Sia tu che io abbiamo scritto delle autobiografie, e sappiamo com’è. È tutto già pronto davanti a te e il lavoro che devi fare in realtà è solo trascrivere, dandogli un po’ di forma e tutto il resto. Ma con un romanzo, c’è spazio per reinventare e riaggiustare. Lo so che Saul Bellow non ricade esattamente in questa categoria, ma di sicuro si rendeva conto che stava scrivendo cose della vita reale, e aveva terribili attacchi d’ansia all’idea che qualcuno potesse fargli causa, perciò all’ultimo minuto cambiò i nomi dei personaggi principali. Questo tipo di problemi di solito non si presenta quando scrivi quello che chiamerei un "romanzo d’arte"».
RUSHDIE: «C’erano paralleli di ogni tipo tra la vita e i romanzi di Saul Bellow: Herzog, per esempio, con la moglie che scappa via con qualcun altro. Ma non avevo la sensazione di dover sapere queste cose per comprendere Herzog. Quello che fai tu, spesso, è mantenere i nomi veri delle persone, che in molti casi non ci sono più. Eppure, alcuni dei nomi li hai cambiati. Mi sono chiesto quale criterio ci fosse dietro».
AMIS: «Ho lasciato tutto all’impulso. A volte mi sembra giusto chiamare un personaggio per nome, così, seccamente, e altre volte no. Tutte le grandi decisioni vengono prese in modo automatico, perché è il tuo subconscio che ci lavora. Non avrei mai chiamato Saul Bellow "Solomon Beloz" o cose del genere. Niente maschere per i personaggi conosciuti. Ed è stata anche una cosa liberatoria. Ma indubbiamente è un romanzo particolare, che ha dentro pezzi di critica letteraria.
Pensavo che solo qualcuno interessato alla letteratura come proposizione filosofica sarebbe stato interessato quanto me. Come per tutti i romanzi, è stata una scommessa».
RUSHDIE: «Quando scrivi questi ritratti così dettagliati ed evocativi di persone come Bellow e Christopher, la sensazione che ho avuto è che tu ci stia raccontando la verità, che ci racconti com’erano, cosa dicevano e cosa facevano. È effettivamente così?».
AMIS: «Ho inventato conversazioni con Christopher e, in misura minore, con Saul, e poi moltissime con Philip Larkin. Ma so com’erano le loro voci e quali erano le loro opinioni. Perciò, anche se non hanno mai detto quelle cose in mia presenza, confido che siano verosimili. Ci sono un po’ di invenzioni e riaggiustamenti per adeguarmi a una serie di considerazioni artistiche. Scrivere stilizza. Un romanzo è una stilizzazione della realtà. Penso sempre che la differenza fra un romanzo e la vita reale sia la stessa differenza che passa fra la scarpa e il piede di una donna. La scarpa, con il tacco a spillo, la suola curva e la forma cesellata sul davanti, non assomiglia per nulla a un piede. La vita è lo zampetto inelegante attaccato in fondo alla gamba. È una cosa molto sgraziata. Mi sono anche preso delle libertà con il mio personaggio, l’ho fatto più nevrotico di quello che è veramente».
RUSHDIE: «In tutto il libro, ti rivolgi direttamente al lettore. Hai una percezione chiara di chi sia il tuo lettore? Riesci a sentire la sua presenza mentre scrivi?».
AMIS: «Il rapporto fra lo scrittore e il lettore è un rapporto misterioso, e a mio parere poco esplorato.
Nella sua forma più semplice, è una questione di trasmissione pura e semplice: io racconto una storia.
Ma va molto più a fondo di così, fino al punto che lettore e scrittore diventano identici, quasi indivisibili.
Non devi coccolare il lettore, naturalmente, però devi avere molte attenzioni per lui. L’impostazione di questo romanzo è quella di un dialogo diretto con il lettore. Il mio lettore ideale è molto giovane. Il tuo quanti anni ha?».
RUSHDIE: «Sono felice di dire che riesco ancora ad attirare qualche giovane lettore. Tu hai paura che il tuo lettore invecchi insieme a te, giusto?».
AMIS: «Imbattersi in un lettore giovane è un’esperienza orgiastica, perché pensi che continuerai a vivere dopo la morte, fintanto che vivrà lui. Ma penso di scrivere per il me stesso più giovane».
RUSHDIE: «Come se avessi te stesso che sbircia da sopra la tua spalla?».
AMIS: «Beh, penso che uno scriva i romanzi che vuole leggere».
RUSHDIE: «Pensi che un domani potresti scrivere un libro che sia più come un manuale di istruzioni sulla natura della scrittura?».
AMIS: «No. Pensavo che ci sarebbero state più di queste linee guida su come scrivere frase per frase. Ma voglio prima fare un distinguo: ogni scrittore che viene pubblicato spesso possiede una certa genialità.
Per lo più ti affidi al talento. Ma quando invecchi, la parte geniale si restringe e torna più utile l’aspetto artigianale, la tecnica. Insomma, il genio è un’elevatezza di percezione che è un dono di nascita, quello che probabilmente hai sentito tu quando scrivevi
I figli della mezzanotte, o Saul Bellow quando scrisse Le avventure di Augie March
».
RUSHDIE: «È una cosa che se ne va. Ricordo, parecchio tempo fa, di averne parlato con Kazuo Ishiguro, che sostanzialmente era del parere che se uno non scrive qualcosa entro i quarant’anni, è fregato. Lui è una persona molto metodica. Era andato a guardare quanti anni avevano i grandi scrittori quando avevano prodotto le loro opere più importanti: quanti anni aveva Flaubert quando scrisse
Madame Bovary? Quanti anni aveva Tolstoj quando scrisse Anna Karenina? E la sua conclusione era che se non hai scritto la tua opera più grande entro i quaranta, essenzialmente sei fregato. E se non l’hai scritta entro i cinquanta, sei fregato di sicuro».
AMIS: «C’è molto di vero, in questa cosa. I grandi libri essenzialmente vengono scritti fra i trenta e i trentacinque anni. Jane Austen aveva poco più di vent’anni quando scrisse L’abbazia di Northanger e
Orgoglio e pregiudizio. La scrittura non è come la filosofia, quando a trent’anni sei già alle soglie della senilità professionale. E non è come la poesia, dove l’impulso creativo si affievolisce a cinquanta o sessant’anni. Con la narrativa, continui a sgobbare finché una vocina dentro di te non ti sussurra che è arrivato il momento di tacere».
RUSHDIE: «Alcuni poeti vanno avanti. Czes?aw Mi?osz, Seamus Heaney e Wis?awa Szymborska hanno tutti proseguito fino a un’età avanzata. Quando ho finito di leggere il tuo libro, e l’ho messo via e ci ho ragionato un po’ su, ho avuto la sensazione che fosse un autoritratto».
AMIS: «Beh, "apologia" forse è un termine più azzeccato. È una sorta di autogiustificazione. Tutti i consigli che do sulla scrittura in realtà sono semplicemente il modo in cui mi regolo io. Ma ovviamente tutti i romanzi sono autoritratti. Questo lo è in modo particolarmente esplicito».
RUSHDIE: «Un autoritratto realizzato attraverso la raffigurazione di persone che sono state molto importanti per te. Christopher è stato davvero il punto di partenza?».
AMIS: «Sapevo fin dall’inizio che avrebbe dominato la storia, perché è quello che ha sempre fatto. Tu lo conoscevi bene, sapevi che era inarrestabile. È tutto vero quello che c’è nel romanzo, il fatto che io non abbia mai voluto pensare che non sarebbe riuscito in qualche modo a sconfiggere il cancro allo stadio IV. Il tasso di remissione è infimo. Quando scrissi un articolo su Hitch, più o meno a metà dei diciannove mesi che durò la sua malattia, ebbi una conversazione con Ian McEwan e lui mi disse: "Quando lo critichi, quando critichi le sue cose meno riuscite, non è che tu dica cose sbagliate, ma credi che sia il caso che lui ascolti queste cose adesso?". E io gli dissi: "Che intendi con adesso?". E lui: "Sta morendo". E io non lo feci, però avrei voluto dire indignato: "Non sta morendo".
Naturalmente i valori erano terribili. Non ho accettato questa cosa fino al giorno in cui è morto».
RUSHDIE: «Devo dire che quando eravamo a Houston, a casa di Michael Zilkha (il produttore ed editore discografico), per quello che sarebbe stato l’ultimo compleanno di Christopher, avevo avvertito questa cosa. Era su di morale, quel giorno. Non sembrava alle soglie della morte. Ma ricordo che quel giorno venni via pensando: "Non ne ha ancora per molto"».
AMIS: «Beh, a un certo punto i dottori dissero a Christopher che non poteva partecipare a un qualche evento familiare, e Ian gli chiese: "Pensi che non rivedrai più l’Inghilterra?". Nel suo libro, Mortalità, Christopher ammette di essersi morso la lingua, ma dice che Ian aveva ragione a fare quella domanda, e che era esattamente quello che più lo preoccupava. La cosa che resta un mistero per me è quanto a lungo Christopher pensava che sarebbe sopravvissuto. È la questione complicata del morale e del bisogno di non ammettere la sconfitta, di non rannicchiarsi in un angolo».
RUSHDIE: «Beh, lui è andato avanti a lavorare fino all’ultimo minuto. Ricordo quando fu pubblicato
Hitch-22 (nel maggio del 2010). Aveva un evento nella 92ª Strada Y e mi avevano chiesto di fare da moderatore. Era in forma smagliante e intratteneva una sala stracolma di persone. Dopo andammo a cena in un ristorantino dall’altro lato della strada e scoprii che quella mattina aveva ricevuto la notizia dell’estensione del tumore, e in sostanza era una condanna a morte. Pensai che era straordinario riuscire a fare una cosa del genere, ricevere quella notizia e poi venire a esibirsi davanti a mille persone.
La diceva lunga sulla sua forza di volontà, e forse sulla sua voglia di credere che alla fine l’avrebbe sconfitto».
AMIS: «Quando vidi la foto sulla quarta di copertina di Mortalità, che è stato pubblicato postumo, ebbi l’impressione che fosse effettivamente riuscito a entrare in sintonia con l’idea della morte, come ha fatto. Ma non ho mai avuto queste conversazioni sulla morte con lui. Erano una cosa interiore».
RUSHDIE: «Questo è un libro in cui le quattro persone più importanti — tuo padre Kingsley, Philip Larkin, Saul Bellow e Hitch — sono morte. Da un certo punto di vista, il libro sembra un’indagine sulla morte. Mi chiedo quanto questo sia un tema per te, in questo momento».
AMIS: «Beh, quello che mi chiedo io è quanto ci sia da dire sulla morte. C’è un passaggio in un libro di Saul Bellow — mi sembra che sia Herzog — in cui incontra un’amica che comincia a mostrare i primi segni dell’età, e lui descrive le linee che ha intorno agli occhi e dice: "La morte, artista lentissima". E penso anch’io che la morte sia un’artista. Non ci puoi fare molto».
RUSHDIE: «Bene, passiamo a quelle domande che gli scrittori si sentono fare sempre. "Qual è il tuo processo di scrittura? Scrivi tutti i giorni? La mattina o la sera?".
La domanda più noiosa di tutte».
AMIS: «Insieme a: "I tuoi personaggi sono basati su persone reali?". Beh, mi chiedevo cosa scrivere dopo aver finito questo romanzo, cosa che è avvenuta più o meno verso la fine dello scorso anno, e ho iniziato qualcosa. Era solo un racconto che non ho ancora finito, sul linciaggio, che oggi sembra abbastanza in tema. George Floyd è stato vittima della brutalità della polizia, come tanti altri, ma l’omicidio di Ahmaud Arbery in Georgia mentre faceva jogging, quello è stato un linciaggio da manuale. Ma l’argomento è ancora così gravido di complicazioni storiche che mi sveglio con la sensazione di avere un’incudine sul petto. È un momento sinistramente indicativo per uno scrittore, il modo in cui ti senti quando ti svegli. Voglio farti io la domanda: come ti senti quando di svegli? Qual è la tua prima sensazione?».
RUSHDIE: «Di solito? Il bisogno di un caffè. Ma nei periodi in cui scrivo, il mio primo desiderio è di mettermi alla scrivania più in fretta che posso. Mi porto il caffè alla scrivania».
AMIS: «Quell’epoca per me ormai è passata. È un po’ come un gioco di costruzioni, un altro capoverso qua e là. Ora, essendomi sfiancato con un lungo romanzo, certe mattine mi sveglio pensando: "Stamattina non voglio provarci. Magari ci proverò all’ora del drink"».
RUSHDIE: «Beh, questo libro sono quasi cinquecentocinquanta pagine, è un lavorone. Io non riesco più neanche ad avvicinarmi a libri di queste dimensioni. Gli ultimi due che ho fatto sono venuti poco meno di quattrocento pagine. Ma la cosa che sto scrivendo adesso sospetto che non arriverà neanche a duecentocinquanta. Semplicemente, non penso di avere le forze per scrivere un altro libro veramente grosso».
AMIS: «È molto difficile tenersi nella mente cinquecentocinquanta pagine. Richard Ford, dopo aver finito Lo stato delle cose, che è enorme, disse: "Non lo rifarò mai più". E poi invece il suo libro successivo fu altrettanto lungo. Quindi non lo so. La mia sensazione è che d’ora in poi scriverò solo racconti e romanzi brevi. Verso la fine della sua vita, Cechov diceva: "Tutto quello che leggo mi colpisce perché non mi sembra abbastanza corto". E concordo con lui».
RUSHDIE: «Non so se l’abbia detto veramente, ma Borges, a proposito del grande romanzo di Gabriel García Márquez, commentò: "È troppo lungo. Avrebbe dovuto essere soltanto Cinquant’anni di solitudine" ».
AMIS: «Beh, la lunghezza media di un racconto di Borges, cos’è, otto pagine?».
RUSHDIE: «Di certo meno di dieci».
AMIS: «Per me è il livello a cui dovrebbe puntare uno scrittore anziano».
RUSHDIE: «A me piacciono quelli che sono molto bravi a scrivere racconti lunghi: V. S. Pritchett, Stefan Zweig, persone capaci di scrivere un racconto di quaranta pagine».
AMIS: «Come Alice Munro».
RUSHDIE: «È un’abilità vera e propria. Da quaranta pagine riesci a ricavare quasi lo stesso piacere di un romanzo. Pensi che non riuscirai più a superare le cinquecento pagine?».
AMIS: «L’ho fatto in passato, ma di sicuro non lo rifarò.
Almeno, questa è la mia sensazione».
RUSHDIE: «Il libro più lungo che io abbia mai scritto è Joseph Anton: A memoir. Quello superava addirittura le seicento pagine. E non mi ci vedo a rifare una cosa del genere. Ricordo, quando lo finii, di aver pensato che era un po’ troppo lungo, e tutti gli editori di lingua inglese, a New York, Londra e in Canada, erano d’accordo con me. Ma nessuno riusciva a mettersi d’accordo su quali quaranta pagine tagliare, perciò alla fine è rimasto quaranta pagine troppo lungo».
AMIS: «Quando chiesero a Saul Bellow com’era Augie March, lui rispose: "È duecento pagine troppo lungo"».
RUSHDIE: «Sai, prima, quando abbiamo menzionato Ishiguro, mi è venuto in mente che tempo addietro, quando eravamo tutti giovani e agli inizi, ci fu qualcuno che tentò di raggrupparci insieme, come una sorta di generazione. All’epoca facevamo resistenza a quell’idea e dicevamo: "Non ci conosciamo tutti fra di noi. Alcuni di noi si trovano simpatici, altri no. Alcuni di noi ammirano quello che scrivono gli altri e viceversa, ma altri no". Non sentivamo di essere una generazione. Ma mi chiedo se tu adesso invece la vedi così. Perché io ora un po’ la vedo così».
AMIS: «Di sicuro mi sento parte di una generazione che ha visto un cambiamento piuttosto radicale nel modo in cui vengono scritti e nel modo in cui vengono letti i romanzi. Non puoi più aspettarti che il lettore faccia ipotesi, deduca, provi a indovinare. Per adattarsi, gli scrittori smetteranno di insinuare, di suggerire, di stuzzicare. Ora devono dichiarare».
RUSHDIE: «Sì, quelle cose non si possono più fare».
AMIS: «No. Un’altra cosa è che il romanzo si è dovuto accelerare, in risposta a una realtà anch’essa accelerata. Il dono di Humboldt di Bellow, un romanzo lungo, statico e digressivo, negli anni ’70 è stato in testa alla classifica dei libri più venduti per mesi. Quel pubblico è più o meno scomparso».
RUSHDIE: «Vale anche per Il lamento di Portnoy, e anche per Mattatoio n. 5 e tutta una serie di libri di quella generazione. La narrativa letteraria aveva un parco lettori molto ampio. Ma hai la sensazione che tutti noi di allora — tu, Ian (McEwan), Julian (Barnes), "Ish" (Ishiguro), io, Bruce Chatwin, Angela Carter e tutti gli altri — ti sembra che fossimo una generazione?
O è solamente un caso che tu ti sia trovato insieme a queste persone in quel periodo?».
AMIS: «Un caso. Quando ero alla rivista The New Statesman (come editor letterario, negli anni ’70), i miei colleghi erano Christopher Hitchens, James Fenton e Julian Barnes. Nessuno aveva organizzato questa cosa, era solo una coincidenza. Venivamo tutti da ambienti diversi: insomma, può sembrare una generazione ora, a posteriori, ma non era così che la percepivo allora».
RUSHDIE: «In generale, sono dell’idea che molti di questi nomi sono scrittori che apprezzo molto e cerco di seguire, ma non ho l’impressione che siamo impegnati sullo stesso progetto, a differenza, per esempio, degli scrittori del realismo magico o dei surrealisti francesi. Loro erano una banda e facevano qualcosa che percepivano come un lavoro di squadra».
AMIS: «È così che cominciano i "movimenti". Giovani ambiziosi che tirano tardi ubriacandosi e dicono: "Non faremo più in quel modo, lo faremo in quest’altro modo". Ma alla fine, vanno ognuno per la propria strada».
Copyright ©2020, Salman Rushdie (Traduzione di Fabio Galimberti)