Tuttolibri, 14 novembre 2020
Intervista a Jón Kalman Stefánsson
Il video di Zoom non funziona. Jón Kalman Stefánsson, 56 anni, mostro sacro della letteratura norrena contemporanea, chiede aiuto alla figlia. Dopo mezzo minuto in cui la sua voce galleggia in uno schermo nero il problema è risolto e lui compare: il volto illuminato dalla luce ovattata di un pomeriggio autunnale, una libreria zeppa di libri dietro le spalle, i rumori di Reykjavík che filtrano dalla finestra. Mormora qualcosa sulle nuove generazioni e la tecnologia, poi fissa la telecamera con i suoi occhi azzurro ghiaccio e sorride: «Tutto a posto. Possiamo partire…».
Per prima cosa volevo chiederle qualcosa del suo rapporto con "Crepitio di Stelle", uscito in Islanda nel 2003 e pubblicato oggi in Italia da Iperborea. Che effetto le fa che un suo libro stia per diventare maggiorenne?
«Questo libro è sempre stato vicino al mio cuore. Scriverlo è stato molto doloroso ma anche molto utile perché ho dovuto risvegliare ricordi ed emozioni della mia infanzia legate a un’estate che trascorsi in Norvegia quando avevo 10 anni. Era qualcosa con cui dovevo confrontarmi. Oggi sono grato della sua esistenza ma sono concentrato su quello che sto scrivendo e sono felice che Snarkið í stjörnunum (il titolo originale dell’opera, ndr) abbia una sua vita autonoma».
La voce narrante è quella di un bambino di 7 anni. È stato difficile rimettersi nei panni di uno che gioca con i soldatini?
«Ho iniziato a scrivere di questo bambino cercando il giusto tono e quando l’ho trovato è stato abbastanza normale entrare nel suo mondo. È come accordare un pianoforte. Più in generale credo sia interessante per uno scrittore provare a entrare nei panni di qualcuno che è molto diverso da te per età, sesso o cultura. Permette di confrontarsi con i propri limiti e di provare a espanderli».
Nel romanzo descrive il filo invisibile che collega fra loro quattro generazioni. Nella sua famiglia c’è una figura che l’ha influenzata di più?
«Non posso nominarne una in particolare, sono sempre stato circondato da persone di età diverse e questo mi è stato molto utile: non capisci nulla se stai solo con persone della tua stessa età. Ho perso mia madre quando ero molto piccolo e credo che questa sia stata la cosa che ha influenzato la mia vita più di tutto il resto».
Nelle prime pagine, nel raccontare il rapporto fra il bambino e la sua matrigna, una delle presenze più forti è quella del silenzio. Lei lo definisce «una mazza di ferro»: come mai?
«La matrigna è una donna molto silenziosa che usa il silenzio come un’arma. Ma sta in silenzio anche perché è una persona abituata a parlare solo se ha qualcosa da dire. Viene dai West Fjords e devo dire che lì è abbastanza comune. Questo può sembrare un po’ strano perché la nostra cultura, la cultura occidentale, è una cultura di parole e non di silenzio, in cui tutti parlano sempre. Sono sempre stato affascinato dalla nostra relazione con il silenzio. Il silenzio è una specie di linguaggio, un linguaggio che nessuno ha bisogno di imparare, un linguaggio che è dentro di noi. Il silenzio può essere qualcosa di scomodo, addirittura di terribile, specialmente dentro una casa, all’interno di una coppia. Ma può anche essere qualcosa di positivo: possiamo definire l’amicizia quando ci sentiamo a nostro agio con qualcun altro anche senza parlare. Oggi molti di noi vivono in città e il silenzio ci manca, per questo lo cerchiamo e andiamo in mezzo alla natura per entrarci dentro. Abbiamo bisogno del silenzio per sentire davvero la nostra voce, per sentire il battito del nostro cuore e il rumore del sangue che ci scorre nelle vene».
Da un punto di vista stilistico molti definiscono la sua scrittura una prosa-poetica. Ci si ritrova?
«Mi sento più un poeta che un narratore ma questo non è uno stile: è il mio modo di vedere il mondo e di pensare ed è il solo modo in cui riesco a scrivere. Quando ho cominciato a scrivere romanzi ho provato a scrivere in un modo più narrativo ma era terribile. Terribile. Usare la poesia scrivendo romanzi permette di estendere la forma e il linguaggio e di rendere la prosa più densa. E poi la poesia usa continuamente il silenzio: nelle parole, fra le parole e in mezzo alle righe. In questi mesi sono tornato a scrivere poesie dopo 25 anni e sto terminando una raccolta che verrà pubblicata l’anno prossimo. Spero di poter festeggiare con questo libro la fine del coronavirus».
In "Crepitio di stelle" parla dell’epidemia di spagnola che colpì anche l’Islanda e l’Europa un secolo fa. Come sta vivendo questi mesi di emergenza sanitaria?
«Pochi credevano che sarebbe potuto succedere ancora qualcosa del genere. Pensavamo che la scienza e la medicina fossero così avanzate da metterci al riparo da queste cose. Il coronavirus è stato qualcosa di molto sorprendente. Oggi ci siamo ancora in mezzo, e intorno a noi c’è ancora molta sofferenza: persone che muoiono, persone ricoverate in ospedale, gente che perde il lavoro, l’economia che va in crisi. Ma se ci sforziamo possiamo vedere anche alcuni aspetti positivi: in Europa non ci siamo mai sentiti così uniti, abbiamo finalmente capito che non possiamo continuare a distruggere l’ambiente. Questo virus terrificante ci sta dando una seconda possibilità di salvare il pianeta e noi stessi, e di lasciare un mondo vivibile ai nostri figli».
Nel libro c’è una riflessione sul tempo che passa e sulle età della vita. Cosa la interessava di più?
«Ogni minuto che vivi il tempo ti dà qualcosa di nuovo ma dopo che l’hai vissuto te lo porta via. Quando hai un figlio è molto bello osservarlo crescere, ma giorno dopo giorno il tempo sta portando quel bambino via da te. È uno strano equilibrio: il tempo è sia una gioia, una bottiglia di champagne, sia un violoncello che suona una canzone tragica. Ma per me è molto affascinante e influenza il modo in cui scrivo: è vita e morte allo stesso istante».
Nel descrivere la Reykjavík degli anni ’70 la definisce una «città ai margini del mondo». Era davvero così?
«Reykjavik e la società islandese sono cambiate tantissimo. Sono voluto tornare indietro a quei tempi per descriverle anche a me stesso. Quel tempo è appartenuto alla mia vita, non è poi così distante, eppure quando ci penso mi sembra secoli fa. È un altro aspetto del tempo, di come trasforma le cose. Oggi tutto cambia così rapidamente che in un’unica vita si possono vivere molte vite. Ma ogni destino, per quanto antico o remoto, è importante per il genere umano. Ogni vita è importante, anche quelle in cui non succede nulla. Ogni vita andrebbe salvata e ricordata. Questa fede è una delle ragioni per cui scrivo».
Voi islandesi avete un rapporto speciale con la natura. È da lì che nasce la vostra vena artistica?
«È diverso vivere in un Paese come l’Islanda rispetto a stare in un Paese nell’Europa centrale. Voi avete forti relazioni con i vostri vicini e la vostra storia è una storia di incontri e di guerre. Noi per secoli siamo stati soli, specialmente d’inverno, completamente isolati. Questo può farti sentire molto piccolo. Ma allo stesso tempo ti dà l’opportunità di credere di essere speciale. E quando cominci a credere di essere un po’ diverso, alla fine lo diventi davvero. Vale per gli uomini ma anche per le nazioni. Un altro elemento è che viviamo in un Paese abbastanza grande, che siamo in pochi e che conviviamo con terremoti, vulcani e valanghe. Noi sperimentiamo sempre i limiti dell’essere umano e siamo spinti a pensare in un modo un po’ diverso. Una delle ragioni per cui i Sigur Rós suonano come suonano è che nella loro musica puoi sentire la forza della natura. Penso che sia anche questa la ragione per cui usano parole che nessuno può capire. Non puoi descrivere la forza della natura, puoi solo urlarla».
Nella vita ha fatto mille lavori. Quale le è servito di più per diventare scrittore?
«Il motivo per cui ho fatto così tanti lavori è che a un certo punto ho lasciato la scuola per tre anni. Se non avessi fatto tutte queste esperienze e avessi continuato la scuola in modo "normale" sarei diventato lo stesso uno scrittore? Penso di sì, scrivere è la mia gioia e il mio destino. Anche se forse non avrei scritto delle stesse cose: I pesci non hanno gambe e Grande come l’universo, ad esempio, nascono dal mio lavoro in una fabbrica di pesce. Penso che tutti, nel limite del possibile, dovrebbero provare a fare qualcosa di diverso per avere uno sguardo differente sulla società e su loro stessi. Se stai sempre nello stesso recinto non ti conosci mai davvero».