Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  novembre 14 Sabato calendario

Rebecca West raccontata dalla pronipote

Quando anni fa richiusi l’ultimo volume della Trilogia degli Aubrey di Rebecca West, rimasi per giorni sospesa in una deliziosa malinconia, certa che non avrei mai più abitato pagine di una tale bellezza – che ormai era mio compito ingrato esigere al di fuori dei libri. Mi sbagliavo. E nemmeno lo sapevo. Non potevo infatti prevedere allora – nemmeno mi sono mai sognata di sperarlo – che qualche anno dopo Fazi avrebbe pubblicato un altro romanzo di Rebecca West, Quel prodigio di Harriet Hume, tradotto divinamente da Francesca Frigiero, e che sarei stata riammessa in quella bellezza con il sollievo indicibile di chi, dopo tanto camminare con delle scarpe troppo strette, sperimenta infine il lusso di levarsele.
Nessuna nostalgia di Rosamund e delle sue sorelle in questo libro (sebbene se ne scorgano qua e là i gesti): è francamente impossibile non innamorarsi di Harriet Hume fin dalla prima pagina, poiché «amarla era come avvolgersi in una sciarpa di puro spirito». E non accade solo al lettore di finire per adorare questa giovane pianista bellissima e squattrinata, che annuisce a tempo di una musica che solo lei è in grado di udire, ma a tutti gli uomini che incontra, percorrendo con i suoi piedini minuscoli le strade di Londra. Vien quasi d’arrendersi a Harriet Hume, mentre racconta una delle sue favole – sublime è quella dedicata alle tre sorelle Dudley trasformate in alberi in un giardino di Kensington – e le guance le diventano «lucenti come pittura fresca, come la polpa di una ciliegia in cui affondare i denti». Perlomeno, io mi sono arresa subito a questa ragazza così intelligente da conoscere a memoria la grammatica dell’allegria di amare – così dotata nel rifiutare ogni tristezza e ogni bruttezza da apparire soprannaturale, al punto che c’è quasi da restare sollevati nel sentire il suo cuore battere, perché come un ticchettio dell’orologio rivela che Harriet è umana pur essendo «misteriosamente al di sopra dei limiti delle persone ordinarie».
Chi invece non si arrende a quel prodigio di Harriet Hume e predilige scandalosamente la strada dell’ordinarietà è il protagonista maschile del romanzo, Arnold Condorex. «Mi sei cara come se ti conoscessi da tutta la vita, il che non è vero, e ti trovo eccitante come se ti avessi vista per la prima volta questo pomeriggio, altra cosa non vera», dice a Harriet nel loro più irripetibile giorno d’amore. E poi la perde. Nemmeno la lascia come si deve, Condorex – qui sta lo scandalo. La smarrisce non perché sia finito l’amore – e infatti continuerà ad amarla per tutta la vita – ma per goffaggine, per imperdonabile distrazione. Ambizioso di farsi strada tra la gente che conta per riscattare i suoi mediocri natali, il giovanotto tentenna, incespica, poi parte per l’Asia a fare carriera come segretario. Una voce dentro gli impone di pensare agli affari, alla posizione sociale, e lui annuisce come un contabile qualunque lasciando per sempre il giardino fiorito di Harriet. Soltanto una volta a casa gli verrà il dubbio atroce «di aver brutalmente schiacciato al suolo un fiore».
Condorex rivedrà per caso Harriet sei anni dopo quel pomeriggio maldestro in cui ha osato non considerarla abbastanza da diventare tutto. Ormai è un noto politico, sposato con una donna insipida ma di illustri natali. Harriet è ancora più radiosa e, se possibile, ancora più prodigiosa. «Classificami pure come tutto ciò che Arnold Condorex ha respinto», gli dice passeggiando in un giardino d’inverno – e lì per l’uomo inizierà la certezza inamovibile di aver sprecato tutta la bellezza che gli era stata offerta per immeritato miracolo, crudele conferma del fatto che, nonostante la sua folgorante carriera, rimarrà un mediocre.
Chi fin qui potrebbe immaginare che si tratti di una storia d’amor perduto come ne accadono a decine ogni giorno, è solo perché non ha mai letto Rebecca West. Non solo perché nel libro non c’è nessun amore perduto – Harriet e Condorex continueranno ad amarsi per tutta la vita con la complicità indistruttibile che hanno solo gli amanti. Ma soprattutto perché Harriet ha un dono particolare – da qui la parola «prodigio» nel titolo del romanzo, sebbene possa essere benissimo riferito al talento di Rebecca West: la donna, fin da un lontano pomeriggio in cui presero il tè, ha il bizzarro potere di leggere nei pensieri di Condorex. Senza mai giudicarlo né tantomeno accusarlo – nemmeno quando negli anni scoprirà i gustosi intrighi politici dell’uomo -, ma diventando ancora più agguerrita nel proteggere il loro amore dalla banalità, «perché siamo davvero meravigliosi, e dovremmo essere capaci di ispirare cose meravigliose!».
Chissà come sarebbe stato leggere nei pensieri di Rebecca West, mi chiedo adesso, richiudendo Quel prodigio di Harriet Hume – chissà come sarebbe stato saper nominare la luce come solo lei sa fare. Prodigioso certamente, come questo suo indimenticabile romanzo.