La Stampa, 14 novembre 2020
La pandemia del debito
Mentre il virus non si arresta, emergono come sintomi le contraddizioni del nostro paradigma politico-economico. Un sistema ammalato, che preferisce restare indebitato con i propri errori pur di non mettersi in discussione. Anche se questo lo lascia senza una cura. A settembre è scomparso l’antropologo e attivista David Graeber, autore di “Debito. I primi 5000 anni”.
È stato lui a insegnarci che fin dall’antica Mesopotamia il debito, quando non può essere saldato e diventa endemico, dev’essere cancellato. «Amargi», la prima parola umana che conosciamo per indicare la libertà, significa «libertà dai debiti».
Nella governance neoliberista il debito si fa dispositivo di potere, strumento per manovrare le masse. Un guinzaglio che si allunga e si accorcia in base alle esigenze. Piuttosto che slacciarlo, si erogano sussidi in condizioni estreme. Il tutto mentre i debiti pubblici statali sono carta comprata ormai quasi esclusivamente dalle banche centrali. In questo scenario l’elefante nella stanza è il lavoro. Il suo costo deve restare basso, per consentire di monetizzare il debito e scongiurare il rischio di una situazione alla Weimar. Ma non potrebbe salire per definizione: l’individuo indebitato è costretto a lavorare a qualsiasi condizione, pur di ripianare i debiti sottoscritti per sopravvivere. Il guinzaglio si accorcia e si allunga. Se si slacciasse, l’uomo indebitato entrerebbe nella schiera dei senz’arte né parte. Per dirla con il grande inquisitore dei Fratelli Karamazov: il Debito, con la maiuscola, si sostituisce a Dio. Dunque se viene meno il Debito, viene meno tutto. Se invece il debito pubblico viene monetizzato, può indurre gli investitori a muoversi su asset più rischiosi. Per questo il titolo di Stato, di solito un parcheggio di prudenti risparmi, è stato spogliato del suo valore per spostare denaro su capitali di rischio. Ciò dovrebbe creare un volano per l’economia e stimolare l’occupazione. Ma non è così. Perché i flussi di capitale non fanno che spingere gli azionariati verso lande inesplorate: tengono in vita aziende deficitarie, congelano il ciclo di mortalità delle start-up. Il risultato è la frattura tra Wall Street e “High Street”, una disconnessione dell’ecosistema finanziario dall’economia reale: i negozi deserti da mesi, le Borse che macinano nuovi record. Si assiste a una correlazione inversa, anzi perversa. Più la situazione peggiora, più i mercati si gonfiano grazie agli aiuti statali, che finiscono per inflazionare gli asset finanziari come nella Great Financial Crisis del 2008. Un circolo vizioso che va avanti da anni e causa un aumento costante e regressivo di disuguaglianza.
Nel quadro di recessione, le piattaforme tecnologiche diventano oligopolisti naturali in quasi tutti i settori economici. E dunque si torna al debito, la cui monetizzazione consente al sistema di non collassare e di perpetuare il ciclo d’assorbimento della crisi. Il cui costo per la collettività al momento è sterilizzato dagli acquisti delle banche centrali e dal conseguente azzeramento dei tassi. E si torna a Graeber, che nel dispositivo di controllo del debito individuava l’architrave dell’odierna società. La finanza al tempo del Covid procede in questa stessa direzione: tenere in vita il ciclo pur di non inceppare il meccanismo; erogare sussidi per coprire i debiti e produrne di nuovi, mentre l’asset è detenuto dall’1% della popolazione e sul 99% viene spalmato il debito. In questi giorni la scienza ci ha infuso la speranza di un vaccino come cura per il virus. La politica è invece lontana da una cura per il nostro capitalismo fragile e sempre più iniquo. Questa non può che passare per la ridefinizione degli obiettivi del debito: invece di favorire chi sistema la leva finanziaria solo per i propri interessi, serve che i benefici si estendano a ogni membro della comunità intera. Dalla differenza tra il primo (shareholder) e il secondo (stakeholder), consegue la differenza tra un debito buono e un debito cattivo. Il debito deve creare un effetto moltiplicatore sull’economia, la spesa pubblica deve ribilanciare il rapporto tra capitale e lavoro. È urgente come ogni intervento sulle fondamenta. Oggi il debito si è espanso più o meno in tutto l’Occidente, cancellarlo è un’ipotesi ancora troppo lontana dalla realtà. La verifica della capacità di ripagarlo è rimandata a quando potremo fare i conti coi lasciti della pandemia. Intanto però possiamo capire come usare quell’espansione in modo virtuoso. Pensare al bene della comunità e non al privilegio di pochi. La vera partita è questa e si giocherà alla ripartenza. Facciamoci trovare pronti.