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 2020  novembre 13 Venerdì calendario

Ibra spaventa gli avversari

Più Ibra va avanti e più viene voglia di studiarlo. Ronaldo è molto simile a quando aveva venti anni, gioca alla stessa maniera, si rovesciano anzi le squadre per riuscire a farlo rimanere lo stesso di sempre. Ibrahimovic si evolve continuamente. Quando nell’agosto del 2006 arrivò all’Inter, l’Almanacco Panini lo accreditava di 192 centimetri di altezza e 84 chili di peso. Da qualche anno è 195 centimetri e 95 di peso, undici chili in più. Addosso a Ronaldo e Messi ne farebbero giocatori completamente diversi. Ibrahimovic ha solo rafforzato nel fisico la sua idea di vicinanza a Odino, un dio dei boschi primitivo e guerriero.
È cambiato il suo gioco, è diventato sempre più denso, più dentro le cose del campo. Ha raggiunto col tempo un senso di potenza assoluta che prima rappresentava con più democrazia. In Ibra c’è oggi una superiorità fisica e tecnica riconosciuta dagli avversari. Marcare Ibrahimovic non è una prova di abilità o di mestiere, è qualcosa che il difensore sa di non avere: la sua forza, la stabilità sul luogo della lotta, e anche la sua cattiveria.
I difensori amano avere grandi avversari perché marcandoli diventano grandi anche loro. È il loro modo di segnare un gol, di sentirsi davvero dentro una vittoria. Ma non con Ibrahimovic. La sua differenza è sempre evidente. Arriva un momento nella partita in cui in area la palla cerca solo lui, continuamente. E lo trova. È una sensazione di inferiorità manifesta che il difensore avverte, conosce, e ne sente il disagio fin dall’inizio. Ronaldo lo puoi rincorrere, qualche volta lo puoi anche raggiungere, è nell’ordine delle cose. Con Ibrahimovic è come giocare a braccio di ferro, non ti salva niente, vince solo il più forte. In questa inevitabilità è come Messi, troppo bravo per perdere il pallone e troppo veloce per essere preso. Ma Messi per vivere ha dovuto cambiare qualcosa, parte da più lontano, suggerisce di più, interpreta meno. Ibrahimovic è rimasto se stesso, semmai è andato avanti nel proprio solco.
A modo suo è eterno, oltre il suo tempo e quello delle macchine che verranno. Gli algoritmi sostituiranno i mestieri specialistici, quelli replicabili attraverso i dati, da un chirurgo a un fornaio, tutti quelli che sanno fare benissimo una cosa sola. Ma nella sua struttura del calcio, Ibrahimovic è un Homo Sapiens, un signore di cinquantamila anni fa. Il primitivo non è replicabile perché sapeva fare tutto quello che serviva per vivere, da accendere il fuoco a procurarsi la cena ogni giorno. Non ci sarà intelligenza artificiale che saprà replicare un Tutto. È questa la vera diversità di Ibrahimovic, il lato terreno che lo rende universale.
Sul campo passa dai gol di potenza a quelli morbidi, ha movimenti imprevisti sul tronco e con gli arti, a volte quasi grotteschi perché prendono alle spalle l’armonia del calcio, ne invertono il senso. Non era così all’inizio, non era così nemmeno pochi anni fa. Ibra è sempre stato determinante ma nel tempo ha fatto di più, è come avesse studiato per impararsi meglio, per dominare di più. Oggi corre meno, certo, ha scatti più brevi, che sono poi la cosa più faticosa del calcio. Ma ha aumentato la sua presenza sul campo, il suo arco magnetico.
Forse è stato l’anno a Manchester ad averlo aiutato, il grande infortunio che lo mise spalle al muro e lo portò direttamente verso la fine della storia. Ma c’è stato un momento in cui Zlatan ha deciso che la vecchiaia doveva essere un modo diverso di abituarsi alla vita, una combinazione in più. Bastava aggiungere tempo alla potenza. E lui c’è riuscito, come il Sapiens davanti al fuoco cinquantamila anni fa.