Corriere della Sera, 13 novembre 2020
QQWAN30 7QQWAN40 E Marija Judina incantò Stalin
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Ascoltato Fantasia Beethoven Sua esecuzione. Bellissima. Grazie. Osiamo assicurarle difenderemo cultura sovietica e Lei. Tiratori scelti Antonov e Terentev». Quel giorno di guerra del 1942 in cui ricevette la lettera di quei soldatini in prima linea, a Marija Judina scappò sicuramente un sorriso. Che c’entrava, lei, con la «cultura sovietica?». Quella che viene considerata la più grande pianista russa del Novecento, scomparsa cinquant’anni fa il 19 novembre 1970, non riuscì mai a fare un solo concerto in un Paese occidentale o ad avere un pianoforte tutto suo (ne aveva uno a nolo, e faticava a pagare le rate) proprio perché i più ottusi custodi dell’ortodossia la ritenevano una nemica del popolo: non era atea.
Glielo disse in faccia, sfrontato, un burocrate di nome Pavel Fëdorovic: «Ah, Marija Veniaminovna Judina, noi la porteremmo in trionfo se solo… Se solo lei non credesse in Dio!». E lei: «Non si darà mai il caso che mi portiate in trionfo. Non rinnegherò la fede. Sarete voi, invece, a venire tutti dalla nostra». Non era tipo da farsi intimidire. Al punto che avrebbe osato sfidare Stalin ricordandogli i suoi «gravi peccati contro il popolo e la nazione». Altri sarebbero finiti dritti dritti in un Gulag siberiano. Lei no. Forse perché perfino Stalin…
Ma partiamo dall’inizio. Nata nel 1899 a Nevel’, in una regione bellissima di boschi e laghi («Sono cresciuta veramente in un paradiso terrestre») più o meno a metà strada tra Mosca e Riga, Marija Judina apparteneva a una famiglia ebraica come 12 mila dei 18 mila abitanti destinati nel 1941 a essere spazzati via dai nazisti. Figlia di un medico, Veniamin Judin, laico e positivista, rivelò subito d’essere, al pianoforte, una enfant prodige. Accettata a 12 anni al Conservatorio di Pietroburgo («suonavo con il colletto “alla marinara” e la treccia»), diplomata a 22 con la medaglia d’oro (vincendo anche un pianoforte a coda bianco mai consegnato), a 24 era già in cattedra.
Una carriera fulminante. Nonostante, appunto, quella rivoluzione che sulle prime l’aveva travolta. Un giorno, come racconta Giovanna Parravicini, ricercatrice di Russia Cristiana che da trent’anni vive a Mosca, nel libro Marija Judina. Più della musica, edito da La Casa di Matriona, uscì di casa e si trovò travolta da un fiume di gente: «Per le strade si sparava, non si aveva paura di niente e noi ci davamo da fare per fasciare le ferite e rifocillare gli affamati». Finché incontrò uno dei suoi professori: «“Cos’è questa roba?” mi chiese sfiorando la mia fascia da miliziana… Io mi smarrii, dentro di me esplosero a tutta forza le ouverture di von Weber, le sinfonie di Schubert, Mozart, la mia esecuzione nell’orchestra studentesca sui timpani e non riuscii a spiegare niente... In quell’istante “l’istinto rivoluzionario” lasciò il posto in me al “senso sinfonico”».
Il resto lo fecero le delusioni. Le contraddizioni tra i proclami («Esponete liberamente le idee più sublimi. In nessun altro luogo, in nessun altro Paese verranno accolte calorosamente quanto nella Repubblica degli operai e contadini») e gli arresti di amici e compagni che «erano davvero il “fiore dell’umanità”. Disinteressati, laboriosi, tutti responsabilità, bontà fattiva, forza di pensiero… Oro puro...», ma pensavano fuori dal coro e per questo finirono in galera o «morti da martiri». Come Vsevolod Bachtin, un «astro della medievistica» e sua moglie Evgenija, che «per oltre 30 anni hanno peregrinato tra lager e luoghi di deportazione», o Sergej Usakov, scomparso «ancora ragazzino» quando sapeva «praticamente a memoria tutto Dante in italiano».
«La nostra giovinezza, la giovinezza di tanti uomini d’arte, di scienza, di vita pratica, aveva le ali ai piedi», ricorderà Judina. «E ciascuno a modo suo poteva ripetere quelle stupende parole di Blok: “Sento il fruscio delle pagine di storia che si voltano”… Ci alzavamo e ci coricavamo con la poesia». Finché tutti i sogni finirono: «L’università si spopolava. I nostri docenti insegnavano fino all’ultimo, fino all’ultima ora e istante in cui venivano soppressi la loro materia o loro stessi».
La salvò, via via che le illusioni erano inghiottite dallo sconforto, la fede: «Ieri per la prima volta sono stata alla liturgia. È proprio vero, dunque, sto approdando al cristianesimo, definitivamente; lo voglio. È la prima volta che entro in chiesa, attendo la grazia di Dio, credo e spero! Signore abbi pietà! Amen». Battezzata nel maggio del 1919 a Pietrogrado, resterà fedele a quella scelta fino in fondo. Usando per decenni i suoi soldi (pochi) e la sua fama (leggendaria tra i russi a dispetto delle cacciate prima dal conservatorio di Stalingrado e poi da quello moscovita, dell’esilio a Tbilisi, dei concerti negati...) per cercare di aiutare i dissidenti a rischio di deportazione, per pagare la retta a studenti poveri, per spendere l’intero stipendio per una mucca da latte da dare a una madre affamata conosciuta in treno, per sfidare la collera del Potere ospitando Boris Pasternak che proprio a casa sua lesse per la prima volta nel febbraio 1947 parti del proibitissimo Dottor Živago e poi ancora prendendo tra i primi le difese di Aleksandr Solženitsyn all’uscita di Una giornata di Ivan Denisovic: «Un libro epocale».
Per non dire della sfida più temeraria, raccontata dal pianista e compositore Dmitrij Šostakovic e ripresa da Giovanna Parravicini. Una sera, nella sua dacia, Iosif Stalin ascolta alla radio Marija Judina: è il Concerto numero 23 K 488 di Wolfgang Amadeus Mozart. Sa bene chi è, quell’inflessibile avversaria. Sa anche però, statene certi, che nel 1942 s’era offerta volontaria per andare nell’amatissima Leningrado come infermiera e che dopo esser stata rifiutata («Non sapevo far niente: durante il tirocinio in ospedale inondavo di lacrime i feriti gravi») aveva insistito per andare nella città assediata dai nazisti per suonare in diretta alla radio e tirar su il morale dei soldati. Nonostante tutto, il despota è un suo ammiratore. Ascolta il concerto e ordina: vorrei il disco.
Ma non c’è, il disco: era tutto in diretta. Panico: come dire di no a Stalin? Occorre farlo, il disco. Nella notte (notte alla quale Ermanno Olmi sognava di dedicare l’ultimo film della sua vita prima di morire) vengono febbrilmente rintracciati la pianista, i musicisti, il direttore d’orchestra. Ore di fatica, di tensione, di arte. La mattina il disco è pronto. Stalin ringrazia inviando a Marija Judina 20 mila rubli, «una cifra strepitosa per l’epoca». Tanto più per una donna così incurante di ogni cosa superflua da venire invitata dallo stesso partito a farsi «un guardaroba decente».
La risposta è straordinaria: «La ringrazio per il Suo aiuto, Iosif Vissarionovic. Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso, La perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della mia parrocchia».
Quando il despota se ne andò, si dice, sul grammofono della dacia trovarono quel disco.