È diventato il principe europeo del thriller letterario ed è anche un autentico longseller. Quest’estate era ancora in classifica La verità su Harry Quebert, pubblicato nel 2016, quando è arrivato L’enigma della camera 622 (La Nave di Teseo) che ha scalato di nuovo le vendite. «Per me è un modo di ricordare quanto sia importante credere nei propri sogni» racconta Joël Dicker, 35 anni, che ha fatto brevi studi teatrali, poi ha preso una laurea in giurisprudenza, prima di lanciarsi nella letteratura.
Svizzero, con una nonna italiana di Trieste, Dicker è stato scoperto da Bernard de Fallois, nome importante dell’editoria francese scomparso due anni fa, a cui rende omaggio nel nuovo romanzo. «Come tutte le grandi amicizie, è cominciata male. Aveva letto il mio primo manoscritto, Gli ultimi giorni dei nostri padri , trovandolo pessimo. Alla fine l’ha pubblicato senza convinzione». Con Quebert è stato invece un colpo di fulmine. «Mi ha detto subito: sarà un successo. Aveva questa passione fanciullesca nel portare avanti nuovi progetti » ricorda Dicker che partecipa a BookCity con un incontro dal titolo "L’enigma della natura". Il maestro nella suspense rivela di essere molto impegnato sui temi ambientali.
Il suo interesse per la natura risale all’infanzia?
«È attraverso questa passione che è cominciato il mio rapporto con la scrittura. Tra i dieci e diciassette anni ho pubblicato un mensile, La Gazzette des Animaux (la gazzetta degli animali, ndr ). Lo stampavo a casa e lo mandavo per posta agli abbonati. Ricevevo molte lettere di lettori che commentavano gli articoli. Anche se a un certo punto ho avuto voglia di cimentarmi con la letteratura, è con questo giornale che ho preso coscienza della forza della condivisione attraverso la scrittura. E il mio primo racconto, a diciannove anni, è stato La Tigre , ambientato in Siberia».
È andato nel Grande Nord?
«Sono stato in Alaska dove ho vissuto l’incontro straordinario e affascinante con orsi e lupi. Ne conservo un ricordo potente e oggi guardo con molta tristezza il deterioramento del Pianeta a causa del cambiamento climatico ma anche della nostra abitudine all’iperconsumo. Lo spreco alimentare per me è qualcosa di terrificante».
Partecipa a qualche movimento ambientalista?
«Non sono iscritto a un partito o a una organizzazione specifica ma cerco di essere militante a casa sul consumo del cibo, limitando l’uso della plastica, usando prese elettriche che si possono disattivare. Siamo in un momento di svolta. Possiamo ancora cambiare il corso della storia con piccoli accorgimenti».
Cos’altro le è rimasto di quella passione di bambino?
«Nei miei romanzi il paesaggio ha un’identità propria, che sia la costa Est degli Stati Uniti, dove ho passato molte estati, o le montagne svizzere che guardo ogni giorno. Le passeggiate nella foresta vicino Ginevra sono essenziali. È un momento in cui sono in allerta su rumori, odori, una parte di ignoto.
Ogni volta che ho un blocco nella scrittura, mi immergo nella natura».
Le placide montagne svizzere che fanno da sfondo al suo ultimo romanzo contrastano con la tensione del thriller.
«Verbier è un paesino delle Alpi svizzere molto calmo. Il lussuoso hotel è un posto confortevole.
Volevo portare il lettore in atmosfere piacevoli, lontano dalla nostra realtà sempre più dura. Per me la letteratura deve offrire una via di fuga da un mondo aggressivo, pieno di cattive notizie. Certo, all’interno di questa scenografia succedono cose meno piacevoli.
Non svelo niente dicendo che c’è un omicidio nell’albergo».
Il lettore ignora ovviamente chi è l’assassino ma anche, per gran parte del romanzo, il nome della vittima. Perché?
«Anche io non so chi sia la vittima quando comincio a scrivere. È solo avanzando che mi pongo la domanda di chi deve morire. Non è facile decidere perché nel frattempo mi affeziono ai personaggi. Diventa un gioco mentale. Il successo è qualcosa di fragile, non dipende da me. L’unica cosa che controllo è il piacere di creare. Posso avanzare solo in uno stato di fibrillazione permanente».
Comincia sempre a scrivere un libro senza sapere come finisce?
«Sempre. Non seguo mai uno schema prestabilito. Mi sveglio al mattino con la curiosità di sapere cosa succederà. E se ho voglia di tornare nel libro, per vedere come andrà a finire, allora è buon segno».
Il protagonista del romanzo è uno scrittore di successo che si chiama Joël. Gioca sulla frontiera tra realtà e finzione?
«Già in Quebert il protagonista era uno scrittore di successo di New York, Marcus Goldman. Da allora molti lettori continuano a pensare che Goldman sia io nonostante i pochi punti in comune. Con il personaggio di Joël, scrittore a Ginevra, ho creato un elettroshock.
E stranamente i lettori mi identificano di meno con il protagonista, forse perché è un’associazione troppo semplice.
In un romanzo il potere è sempre nelle mani del lettore».
Anche in questo libro c’è il tema dell’identità, della costruzione sociale.
«Sono temi che si ripetono nei miei primi romanzi perché corrispondono a un periodo della mia vita, a cavallo dei trent’anni. Un anno fa, sono diventato padre.
Immagino che entrerò in una fase nuova che si noterà anche nei libri».
Lavora già al suo nuovo romanzo?
«Durante il primo lockdown sono rimasto come paralizzato. Per scrivere ho bisogno chiudermi nel mio ufficio, a qualche chilometro da casa. La mattina prendo l’autobus, mi mischio alla gente che va a lavorare, e poi entro in una bolla. Quando il rumore fuori è svanito, mi è terribilmente mancato il fermento del mondo esterno. In questo nuovo lockdown, in corso anche in Svizzera, mi sono adattato meglio. Ho cominciato a scrivere qualcosa, ma non è ancora chiaro. Ho una sana incertezza che probabilmente mi accompagnerà anche per uno o due anni. Solo così mi diverto. Come mi ha insegnato il mio editore, è il segreto di un buon libro».