Il Messaggero, 13 novembre 2020
Intervista al cappellaio Massimo Pieroni
Il tricorno de Il Casanova di Federico Fellini e quello di Johnny Depp per Pirati dei Caraibi, i cappelli di Robert De Niro in C’era una volta in America e la tiara di Jude Law in The Young Pope. Poi, creazioni per Sordi, Gassman, Proietti fino ad arrivare a Brad Pitt, Nicole Kidman e molti altri. Capelli diversi, film distanti tra loro per tema, ambientazione, periodo, accomunati dalla medesima firma. Attivo a Roma dagli Anni Quaranta, il Laboratorio Pieroni, fondato da Bruno Pieroni, realizza i cappelli delle principali produzioni di Cinecittà e di Hollywood, tra titoli cult e da Oscar. Alcune creazioni sono riunite nella mostra capitolina Romaison, ora chiusa ma con un ricco programma digitale di podcast, videointerviste – lunedì, con la costumista Gabriella Pescucci, Premio Oscar per il film L’Età dell’Innocenza – e talk sui canali social dell’esposizione. Abbiamo raggiunto Massimo Pieroni, classe 1964, titolare del Laboratorio, per parlare di moda e cinema, tra storia e prospettive.
Come è nato il Laboratorio?
«È stato mio padre a fondarlo. Nato nel 1925, ha iniziato a lavorare a quattordici anni in un’azienda che realizzava copricapo e buffetterie per divise e che poi cominciò a fornirli pure a Cinecittà. Il primo film per mio papà è stato La corona di ferro diretto da Blasetti. Il titolare dell’azienda non aveva figli, mio padre rilevò l’attività ed ebbe l’intuito di riunire in una sola impresa tutti i lavori che, fino a quel momento erano comparti separati, come cappelli, buffetteria, attrezzeria. Nacque così la ditta Pieroni. Fu un’idea vincente. Per le produzioni era decisamente più pratico avere un unico riferimento. Iniziarono le grandi collaborazioni con il cinema. E poi da lì, con la Sartoria Tirelli, i lavori per molti grandi costumisti, da Piero Tosi a Danilo Donati, e tanto altro».
Ha sempre saputo che avrebbe seguito le orme di suo padre?
«No, sin da piccolo mi piaceva venire in laboratorio, ma non ero sicuro che questa sarebbe stata la mia strada. Mio padre cercava di allontanarmi da questo mestiere, che è fatto di tanti sacrifici. A un certo punto pensai di diventare costumista. Piero Tosi mi disse che sarei stato folle a non portare avanti l’attività perché era unica. Aveva ragione».
In decenni di lavoro, avete vestito molte teste che hanno fatto la storia del cinema.
«Sì, mio padre ha realizzato i cappelli de Il principe delle volpi. I bozzetti sembravano foto, si riconosceva il viso di Tyrone Power. Ha creato il copricapo dorato che Liz Taylor indossa nelle sequenze dell’ingresso a Roma in Cleopatra e il tricorno del Casanova di Fellini, che Donati voleva fosse esasperato».
E i cappelli che hanno segnato la sua carriera?
«Ricordo quando ho messo in prova il cappello a Burt Lancaster per Marco Polo, diretto da Giuliano Montaldo. Fu un’emozione incontrare quel gigante di Hollywood e posargli sul capo la tiara papale. Poi De Niro che provava le creazioni per C’era una volta in America. Ero agli inizi e rimasi fuori della porta a sbirciare. Penso alle prove per Leonardo Di Caprio e Daniel Day Lewis, a Lincoln di Steven Spielberg che rimase a bocca aperta per la ricostruzione dell’epoca».
Come si costruiscono un’epoca e un personaggio con un cappello?
«Scegliendo materiali, fogge giuste, facendo trattamenti per l’invecchiamento. Prima, però si costruisce il personaggio. Tutto è studiato anche per far sentire bene l’attore nel ruolo. Del tricorno per Depp in Pirati dei Caraibi, abbiamo fatto 40 prototipi, pure se sapevamo quale avrebbe scelto. Non era un classico tricorno, poteva sembrare da cantante rock».
Alcuni sono nella vostra collezione?
«Sì ma è sempre più difficile. Le produzioni tendono a tenerli e anche i grandi attori. La collezione però c’è, è ampia e contiene anche un archivio di pezzi ottocenteschi, inclusa una cuffietta del 1840, regalataci da Milena Canonero».
Come si lavora per la moda, invece?
«Abbiamo lavorato spesso per l’haute couture. Ultimamente, con Alessandro Michele per Gucci, prima con Versace, Valentino, Armani. La moda ha canoni diversi dal cinema, non racconta storie, cerca il colpo d’occhio».
Molte professionalità si stanno perdendo: come vede il futuro del settore?
«C’è un solo artigiano, che ha 80 anni, a fare le forme in legno per i cappelli. Noi abbiamo un patrimonio di forme con cui potremmo andare avanti per secoli, ma se una persona volesse iniziare oggi sarebbe in difficoltà. Mancano le ricamatrici militari, ne esiste una, mio padre ne aveva cinquanta per La grande guerra. La prima cosa da fare è tutelare le mani, è sempre più difficile trovare giovani che abbiano voglia di fare mestieri di questo tipo».