la Repubblica, 11 novembre 2020
Perché la seconda ondata del coronavirus ci ha colto di sorpresa
Prologo"Torneremo alla vita normale all’inizio dell’estate, verso giugno. Ma attenzione all’effetto rebound, cioè alla seconda ondata di ritorno del virus che potrebbe esserci in autunno”.
Fabrizio Pregliasco, virologo, 17 marzo 2020.
"Una seconda ondata di epidemia in autunno più che un’ipotesi è una certezza”.
Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute Roberto Speranza, 17 aprile 2020.
"Secondo alcuni scienziati c’è il rischio che alla ripresa del virus influenzale di ottobre e novembre ci possa essere una ripresa anche del coronavirus. Quindi bisogna prepararsi”
Attilio Fontana, presidente Regione Lombardia, 2 aprile 2020.
"In autunno rischiamo una seconda ondata di coronavirus”.
Nicola Zingaretti, presidente Regione Lazio, segretario Partito democratico, 6 aprile 2020.
"Seconda ondata in autunno? Non possiamo avere certezze, ma dobbiamo considerarla possibile. C’è stata in altri Paesi del mondo ed è avvenuta in passato rispetto ad altre epidemie. Credo anche però che il nostro Paese sia oggi più forte di quanto lo fosse a febbraio, in primis perché conosce meglio l’avversario con cui si confronta”.
Roberto Speranza, ministro della Salute, 22 luglio 2020.
Era inevitabile. Era attesa. Era stata avvistata per tempo. La seconda ondata è arrivata. L’Italia, come il resto dell’Europa, ne è stata travolta. E, ancora una volta, è successo in un attimo. Com’è stato possibile? Cosa poteva e doveva esser fatto e non è stato fatto. E perché?
Repubblica ha ricostruito quanto accaduto tra la seconda metà di luglio e la prima metà di ottobre scorsi. Nei 90 giorni che hanno cambiato il nostro destino. Partendo da un documento – “Prevenzione e risposta. Covid-19: evoluzione e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale” – stilato dal ministero della Salute, dall’Istituto superiore di Sanità, dall’Inail e dalla Protezione civile. Quel documento doveva essere la nostra linea del Piave. Si è trasformato nella certificazione della nostra Caporetto. Indicava le otto “barriere” che avrebbero consentito di resistere all’urto della seconda ondata: il tracciamento, la sorveglianza, la tecnologia, il sistema di rilevamento, la nuova organizzazione sanitaria negli ospedali e sul territorio. E il denaro fresco da spendere per implementare e supportare l’intero sistema. A partire dai trasporti e dalle scuole. Non ne è rimasta in piedi una sola. Ecco come è andata.
ASCOLTA IL PODCAST DELL’INCHIESTA
L’estate delle cicale Sappiamo molto dell’estate da cicala di un Paese che, a giugno, vive l’uscita dal lockdown come un tana libera tutti. E di quanto quei tre mesi di rimozione collettiva pongano le basi di un autunno di nuova sofferenza. Sappiamo meno dell’estate di Giuseppe Conte. Che, oggi, retrospettivamente, appare l’esatta sineddoche dello stato d’animo e del peccato di hybris che ci condannerà.
Martedì 21 luglio, alle sei e cinque del mattino, il premier, a valle di un vertice europeo massacrante, esulta in conferenza stampa: 209 miliardi del Recovery Fund andranno all’Italia. Non dorme e mangia pochissimo da quattro giorni. Pensa di avere in mano la chiave che assicurerà anni di rilancio all’Italia. È convinto di essersi liberato del fantasma del Mes. E però, lasciando Bruxelles, confida: “Sono stanco, davvero. Sono al limite”. Comincia così un agosto di ritardi, decisioni non prese, rinvii. Come il capo dell’esecutivo, una parte importante del governo rimanda decisioni fondamentali. E quando Palazzo Chigi se ne renderà conto, sarà troppo tardi.
In agosto, per settimane, i vertici del Pd e dei Cinquestelle sembrano come in balia degli eventi, imbambolati dal relax che accarezza il Paese, regalando settimane di respiro dopo l’incubo di marzo. Anche il premier rallenta, fin quasi a fermarsi. “Conte è stanco”, “Conte risponde poco al telefono”, “servirebbe fare il punto con Conte”. Ma anche i ministri dem e M5s, anche i governatori non sembrano esattamente sul pezzo. Come se il peggio fosse ormai alle spalle. Il magazine “Diva e Donna” pubblica le foto del presidente del Consiglio durante un breve soggiorno con la compagna Olivia Palladino presso l’Hotel Punta Rossa di San Felice Circeo.
Domenica nove agosto, venti giorni dopo la maratona di Bruxelles, negli Stati Uniti l’epidemia galoppa. Il segnale che la Bestia tornerà. In Francia e Spagna, si registrano focolai sempre più larghi. L’Italia invece festeggia. Il Pil corre. Tutti al mare, mentre Roberto Gualtieri sogna un grande terzo trimestre, che in effetti ci sarà. Sarebbe bene attrezzarsi per fronteggiare la seconda ondata. Ma il governo sembra timido – i governatori addirittura infastiditi dai freni – come se il peggio fosse passato. Conte scompare dalla scena pubblica. Viene avvistato in Puglia, Ceglie Messapica, in un ristorante celebre, una stella e l’ambizione di conquistare la seconda. Sarebbe chiuso, ma per il Presidente riapre. Il menù è ricco: dall’aperitivo di polpettine di carne fritte alle orecchiette di semola integrale e grano arso, fino al doppio dessert, biscotto di Ceglie cotto con la ricetta di nonna Dora e un altro dolce dal nome allegro: “Che fico’’. Nessuno immortala la visita: la richiesta dello staff è di evitare i telefonini. Soltanto una foto ufficiale a disposizione dei presenti lascerà traccia dell’evento.
I protagonisti
Fino al 22 agosto di Conte non c’è quasi traccia, se si esclude un’intervista sulle elezioni regionali. Ed è solo il 30 quando, a fine mese, gli sbarchi di migranti crescono di intensità e Luciana Lamorgese e Luigi Di Maio volano in Tunisia, che il premier si lascia convincere ad affrontare una videoconferenza in cui decidere il da farsi. Settembre, se lo portano via le elezioni regionali. La Sardegna contagiata da un focolaio che si allunga con i rientri dalle vacanze su Roma e Milano viene degradata a faccenda regionale. La convinzione radicata è, Dio solo sa perché, che all’Italia sarà dato un tempo per prepararsi che il virus, in Europa, non ha dato a nessuno. Finché, il 15 ottobre, Dario Franceschini manda un sms a Conte. Gli chiede un vertice urgente. Bisogna fare qualcosa per fronteggiare l’onda montante del virus.
Il presidente del Consiglio è a Bruxelles per il Consiglio europeo, prende tempo. Franceschini, siamo al giorno 16, esce allo scoperto pubblicamente: “Ho chiesto ieri al premier un vertice appena farà ritorno in Italia”. Conte decide di volare prima in Calabria, per i funerali della governatrice Jole Santelli. Poi di confermare la presenza al Festival di Limes di Genova, alle 20 di venerdì sera. Discute di politica estera e scenari geopolitici globali. A Roma lo attende il resto del governo. Ecco un altro problema: le riunioni notturne. È un metodo, quello di fare tardi. Conte pare l’abbia appreso dalla Cancelliera tedesca, che glie ne ha illustrato i vantaggi. La notte aiuta a piegare le resistenze politiche e ad appianare i conflitti. Solo che decidere in piena notte non è sempre una buona idea. Trasmette l’angoscia dell’emergenza. Toglie lucidità. Se ne lamentano alcuni ministri. Diventa slogan con cui l’opposizione attacca Palazzo Chigi.
Tracciamento e sorveglianza: “È saltato tutto" È comunque di sera che, il 22 ottobre, sul tavolo del Governo pronto a firmare un Dpcm che tornerà a chiudere un pezzo d’Italia, certificando così l’arrivo della seconda ondata, il ministro della Salute Roberto Speranza lascia scivolare un numero: 7.073. Che spiega così: “In questa settimana abbiamo avuto 7 mila casi al giorno, quasi 50 mila nuovi casi non riconducibili a catene di trasmissione note. È un numero importante, che supera l’80 per cento dei nuovi casi segnalati in alcune regioni”. “Che significa?”, chiede uno dei ministri presenti. “Significa che non sappiamo dove si sono contagiati”, è la risposta. Chi era presente a quella riunione ricorda il lungo silenzio seguito a quella affermazione. Ancora meglio la chiosa che l’avrebbe seguita: “È saltato il sistema di tracciamento praticamente in tutte le regioni”.
Il tracciamento doveva essere la prima delle barriere che avrebbe dovuto proteggerci da questa seconda ondata. Ci avevano raccontato che non saremmo stati più presi alla sprovvista, come a marzo. Che i dipartimenti di prevenzione sarebbero stati in grado di tracciare e isolare tutti i nuovi positivi e individuare le catene di contagio. Grazie al lavoro sul campo dei tracer, vocabolo ormai entrato nell’uso comune: “Gli investigatori del virus”. E al supporto tecnologico offerto dalla App Immuni. Bene, nulla di tutto questo è stato fatto. O per lo meno non come è stato promesso.
Partiamo dai numeri. All’inizio dell’epidemia, in Italia, i dipendenti dei servizi di prevenzione, il motore del sistema di tracciamento in ogni singola Asl, erano 8.900. Il Governo aveva promesso il rafforzamento con almeno il 30 per cento in più di addetti.
Lo aveva scritto al primo articolo del “Decreto cura Italia”, quello che avrebbe dovuto prevenire la seconda ondata, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 19 maggio scorso. “Al fine di rafforzare l’offerta sanitaria e sociosanitaria territoriale necessaria a fronteggiare l’emergenza epidemiologica – si legge – le Regioni sono chiamate ad adottare piani di potenziamento e riorganizzazione della rete assistenziale. Questi piani devono contenere specifiche misure di identificazione e gestione di contatti, indirizzate a un monitoraggio costante e a un tracciamento precoce dei casi e dei contatti, per la relativa identificazione dell’isolamento e del trattamento”. Avrebbero dovuto essere assunti non meno di 3 mila tracciatori. E invece non ne sono arrivati che 341. E per capire cosa significhi questo numero è utile fare un viaggio. Da Bari a Vercelli.
Bari, Epidemic intelligence center Severina Cavalli è al telefono. Come sempre nelle ultime due settimane. A due passi dal mare, la Asl di Bari – una delle più grandi di Italia – ha allestito l’Epidemic intelligence center, un vecchio ambulatorio che è stato riadattato a centrale operativa del tracciamento. Ci lavorano una ventina tra ragazzi e ragazze. Sono tutti giovanissimi, neolaureati e diplomati. “Il loro lavoro – spiega il professor Pierluigi Lopalco, epidemiologo di fama appena diventato assessore regionale alla Salute, in Puglia – è quello di tracciare i nuovi contagi. Ricostruiscono i contatti stretti di ogni positivo, dispongono gli isolamenti domiciliari e i tamponi, seguono ciascun paziente fino alla negativizzazione”. Il sistema è virtuoso. Meglio, lo sarebbe. Perché, nonostante il lavoro pancia a terra di tutti, anche qui tutto è saltato. Vita da tracerA Bari siamo entrati nell’Epidemic intelligence center, per osservare da vicino e raccontare il contact tracing, in uno dei punti più importanti con cui la sanità pubblica prova a tamponare gli effetti del Covid-19 sulla popolazione. Di Gianvito Rutigliano e Daniele Leuzzi
“Potremmo dire che il personale è il 50 per cento in meno di quello che dovrebbe”, ragiona Lopalco. “Ma la verità è che siamo nel mezzo di una pandemia. E probabilmente non saremmo mai abbastanza. L’esempio è quello delle scuole”. Lopalco ha convinto il presidente della Regione, Michele Emiliano, dopo una vibrata protesta dei pediatri di base, a decidere la chiusura delle scuole. Tutte. “Una misura impopolare, lo capisco. Che politicamente non piace nemmeno a me. Ma era inevitabile”. E il perché lo si capisce proprio ascoltando la dottoressa Cavalli. Da quindici giorni è al telefono con le scuole della provincia di Bari. I contagi sono bassi, meno dell’1 per cento della popolazione, ma il tracciamento che hanno sviluppato è diventato insostenibile: 236 classi in quarantena, 4600 studenti, 20 mila persone da tracciare nel giro di due settimane. “Come potevamo reggere?”.
L’untore di Vercelli I numeri hanno mandato in tilt il sistema. Ma lo hanno fatto anche i bugiardi. E gli irresponsabili. Questa è la storia di José, chiamiamolo così. Il 13 luglio atterra a Torino con un volo da Santo Domingo. Proviene da un paese a rischio, dovrebbe segnalarsi alla Asl, restare in quarantena per due settimane. Ancor più perché sul suo volo nei giorni successivi viene riscontrato un positivo. Lui non fa nulla, anzi. A Vercelli, la sua città, frequenta la piscina, le due discoteche-privé che gestisce con un socio, va a giocare a basket (la sua passione), partecipa a un funerale in provincia di Novara. Quando ha i sintomi, febbre e un principio di desaturazione, va al pronto soccorso.
Dimesso dopo tre giorni, ancorché positivo, prosegue la vita di sempre. Il primo agosto, festa patronale, frequenta le giostre con il figlio di 5 anni. Poi, il 14, va a un altro funerale, questa volta un magrebino a Vercelli, porta il virus anche in quella comunità. Il 19 settembre intanto, quasi due mesi dopo il ritorno di José, la polizia viene chiamata per sedare una rissa in uno dei due locali che l’uomo aiuta a gestire. Le tre persone che si picchiavano nella sala da ballo avrebbero dovuto essere a casa perché positive. Risultato: 126 contagi accertati, due ricoveri, un decesso, 2.000 tamponi eseguiti nelle prime settimane. “Ancora oggi continuiamo a vedere casi probabilmente legati a quell’episodio”, spiega Virginia Silano, responsabile del Servizio di igiene e sanità pubblica della Asl di Vercelli. Padova, 19 ottobre 2020 Il baco Troppi positivi, dunque. E in alcuni casi troppo difficili da tracciare per la poca collaborazione. Ma è in questo il fallimento del tracciamento italiano? Non esattamente. Almeno a sentire chi lavora sul campo. Per incredibile che possa apparire, la verità è che manca un sistema unico di tracciamento nel Paese. Ad oggi, le 220 Asl che coprono l’intero territorio nazionale tracciano i contatti dei positivi ciascuna con un proprio sistema. C’è chi impiega un software all’avanguardia (in Emilia e in Veneto, per esempio), chi uno programmato in casa (la Puglia). Chi addirittura utilizza la carta o fogli di calcolo Excel.
Fabrizio Faggiano, il direttore dell’Osservatorio epidemiologico della Asl di Vercelli, racconta: “I 126 positivi del focolaio di agosto li abbiamo contati uno a uno sfogliando file Excel”. Mentre le propaggini di quel cluster che si sono estese a Novara, sono custodite nella memoria di un altro computer, in un’altra Asl. Questo rende impossibile dare risposte sensate a domande semplici: cosa c’è dietro i numeri? Dove avvengono i contagi? Quali sono le situazioni più a rischio? In quali comuni o in quali quartieri di grandi città la situazione rischia di sfuggire di mano?
Tutti i Paesi del mondo si sono misurati con la sfida di ricostruire le catene di contagio. Gli Stati Uniti hanno identificato il pericolo in bar e locali dove si mangia o si beve. La Cina ha ricostruito nei dettagli una cena contagiosa in un ristorante di Guangzhou, a gennaio, riproducendo addirittura la direzione dell’aria condizionata che ha trasportato il virus. La Germania ha analizzato il primo focolaio in Baviera con una lente da Sherlock Holmes, isolando un contagio in una mensa aziendale avvenuto probabilmente con il passaggio di una saliera da un tavolo all’altro. Taiwan ha capito come il virus si trasmette in aereo vivisezionando un volo che era diventato un focolaio. Da noi, nulla di tutto questo. “Ma sono convinta – precisa Stefania Salmaso, epidemiologa – che questi dati preziosi esistano, chiusi in qualche Asl. Invece, sarebbe vitale farli parlare. E parlare tra di loro”.
Test Covid obbligatorio per i viaggiatori che tornano da Paesi ad alto rischio. Germania, 9 agosto 2020
Anche qui, l’allarme era stato dato prima dell’estate. Salmaso, ex direttrice del Centro nazionale di epidemiologia e sorveglianza dell’Istituto Superiore di Sanità, aveva coordinato un’indagine in un campione di Asl italiane e, con un gruppo di colleghi, aveva riassunto i punti deboli del sistema in un editoriale sulla rivista dell’Associazione italiana di epidemiologia (Aie). “Arrivare preparati all’autunno”, era il titolo.
“Il tracciamento dei contatti – si leggeva – è un’attività essenziale per il controllo dei focolai e la prevenzione di seconde ondate epidemiche”. E le indicazioni erano chiare: “Uniformare in tutto il Paese la raccolta dei dati, inclusa l’unificazione delle schede informative”; mantenere “a un buon livello i sistemi informativi regionali garantendo la loro interoperabilità, attualmente inesistente”; adeguare “alla nuova fase le piattaforme di sorveglianza, per consentire di raccogliere le informazioni necessarie a descrivere le nuove catene di contagio (contesti di esposizione, ambiti lavorativi, esecuzione di test sierologici)”.
Senza dati si procede a tentoni. E gli epidemiologi non sono rimasti soli nel denunciare la raccolta erratica e poco ragionata delle informazioni in Italia. A giugno, anche l’Accademia dei Lincei, che raccoglie studiosi di ogni disciplina, aveva lanciato un suo appello: “I dati che l’Iss e la Protezione civile rendono pubblici sono estremamente scarsi: in questo modo la comunità scientifica nel suo insieme non è in grado di fare valutazioni affidabili”.
Immuni. La App che non parla con nessuno Un aiuto tecnologico importante avrebbe dovuto darlo “Immuni”, la App voluta dal governo per aiutare il sistema di contact tracing. Lo scorso inverno, la primavera e anche l’estate sono andati via per lunghissime, e utilissime, discussioni sulla sicurezza di un sistema di questo tipo. Per accertarsi che un’applicazione sanitaria non diventasse un sistema di tracciamento di diverso tipo, si sono chiesti garanzie rigidissime che sono state rispettate. L’App tutela la privacy. Peccato però che non abbia dato alcun aiuto sul piano pratico. I download sono stati quasi dieci milioni ma nell’ultima settimana le notifiche di utenti positive sono state appena 800. Com’è possibile?
I motivi sono sostanzialmente tre: la gestione della App è stata affidata ai dipartimenti di prevenzione che, subissati da altre emergenze, non sono stati assolutamente in grado di gestirla. Ancora più se, come è successo, non era stato affrontato il tema della integrazione della App con i diversi sistemi sanitari regionali. In sostanza, data la positività, non c’era nessun processo automatico che la inseriva nel sistema. Infine, è mancato un punto di integrazione con i laboratori che testavano i tamponi: in Germania il 70 per cento dei laboratori è collegato con l’Applicazione. In Italia, praticamente, nessuno. Un piano rimasto lettera morta Dove non arrivava l’informatica, sarebbe dovuto arrivare l’uomo. I medici di base. Ebbene, oggi è possibile dire che se la seconda ondata è arrivata, e ci ha travolto, è anche perché l’assistenza territoriale è ferma. E lo è in particolare quella domiciliare. Le persone infettate dal coronavirus e sintomatiche non vengono seguite a casa e dunque finiscono per il convergere tutte nei pronto soccorso o direttamente e su richiesta del medico nei reparti degli ospedali. Il gran numero di malati, più o meno gravi, che gravano sulle strutture riempie prima di tutto i reparti ordinari, che infatti sono già in affanno. Non solo: chi non viene seguito a casa quando ha i primi sintomi, magari si aggrava e rischia di diventare un paziente ancora più difficile da trattare per l’ospedale. Di quelli che possono finire in rianimazione.
Un operatore sanitario presso l’ospedale di Casal Palocco a Roma, 26 ottobre 2020 Eppure, anche in questo caso, si poteva intervenire prima. Si poteva evitare il disastro perché un progetto, esisteva e, per giunta, era anche finanziato.
Basta tornare al solito articolo 1 del Decreto rilancio, 19 maggio 2020. Il titolo non lascia spazio a interpretazioni: “Misure urgenti in materia di assistenza territoriale”. Si invitano le Regioni a realizzare, come si è detto, i dipartimenti di prevenzione. Ma viene prevista anche la “sorveglianza attiva” con medici di famiglia, pediatri, guardie mediche, Usca (le Unità per le cure domiciliari create dal ministero alla Salute) al fine di “identificazione, isolamento e trattamento”. Professionisti diversi che si occupano di seguire telefonicamente, o se necessario visitandole, le persone in difficoltà.
Nel decreto si invitano le Regioni anche ad affittare strutture alberghiere fino al 31 dicembre. L’atto è approvato nella fase di discesa della curva epidemica e non si vuole perdere tempo. Vanno creati, o confermati nel caso siano già stati già presi durante la prima ondata, gli hotel sanitari, dove mettere positivi asintomatici che non possono fare la quarantena a casa perché non hanno spazi adeguati, oppure pazienti in uscita dall’ospedale che vanno ancora seguiti, in modo meno specialistico. Poi ci sarebbero gli infermieri di famiglia o di comunità, che devono “potenziare la presa in carico sul territorio dei soggetti infettati”, anche supportando le Usca. Si dà il via libera all’assunzione con contratti a tempo o a tempo indeterminato di 8 di loro per ogni 50 mila abitanti. Cioè ben 9.600. Per non dire del quasi avveniristico, ed effettivamente ancora lontano dall’essere applicato, comma 8.
Un paziente in terapia intensiva presso l’ospedale di Casal Palocco a Roma, il 26 ottobre 2020 “Per garantire il coordinamento delle attività sanitarie e sociosanitarie territoriali, così come implementate nei piani regionali, le Regioni e le Province autonome provvedono all’attivazione di centrali operative regionali, che svolgano le funzioni in raccordo con tutti i servizi e con il sistema di emergenza-urgenza, anche mediante strumenti informativi e di telemedicina”. Infine, 10 milioni per l’assunzione di infermieri che affianchino i medici di famiglia nei loro studi.
Per il progetto dell’intera filiera che dovrebbe proteggerci dall’autunno della seconda ondata vengono stanziati ben 1 miliardo e 256 milioni di euro. Una cifra importante. “Rafforziamo in maniera profonda e duratura il servizio sanitario nazionale”, dice il ministro della Salute Roberto Speranza alla presentazione del provvedimento (da oltre 3 miliardi se si considerano anche gli stanziamenti per ospedali e altro personale). Ma l’estate passerà e nulla di tutto questo accadrà.
Gli infermieri di famiglia e le Usca Neppure la disponibilità di liquidità in bilancio ha convinto le Regioni a intervenire o comunque a muoversi in tempo. Un esempio? Di infermieri di famiglia e comunità ne sono stati assunti meno di un decimo rispetto a quelli per i quali erano stati stanziati i fondi. Parliamo di meno di 1.000. I soldi, come detto, c’erano. Ma le amministrazioni locali hanno prodotto un documento con le linee di indirizzo solo a settembre, quando il virus era già tornato tra noi.
Dalla Fnopi, la federazione degli ordini di questi professionisti, spiegano che “si tratta di figure difficili da trovare sul mercato. Anche perché per il lavoro domiciliare bisogna arruolare infermieri esperti, con cinque anni di studi universitari alle spalle. I professionisti di questo tipo adesso sono stati tutti presi dagli ospedali”. Detto questo, non risultano piani territoriali e tanto meno centrali che si occupino anche dell’assistenza in telemedicina. Sono indietro pure i cosiddetti Covid hotel. Le Regioni solo da alcune settimane si sono messe a cercare strutture alberghiere dove sistemare le persone senza o con pochi sintomi. Servirebbero a ridurre il lavoro degli ospedali. Eppure, erano disponibili 32,5 milioni di euro per affittarli per tempo. O, almeno, per stringere accordi già nel corso dell’estate. Nessuno ha ritenuto di dover anche provare a sembrare previdente. Salvo ora scatenare la caccia a posti letto che potevano già avere a disposizione da settimane.
Pazienti no-Covid trascuratiRitardi sugli interventi chirurgici e l’impossibilità di fare le Tac ai malati oncologici. Andrea De Censi, primario di Oncologia medica all’ospedale Galliera di Genova, spiega l’emergenza. Di Michele Bocci
C’è poi la questione delle Usca. Non sono state rinforzate, malgrado il governo abbia messo a disposizione 61 milioni di euro per farlo. Eppure, a detta di tutti, potrebbero essere utilissime, come è stato dimostrato nelle regioni che le hanno attivate nella prima fase, ad esempio l’Emilia-Romagna. Si tratta di squadre di due professionisti, medico e infermiere, che indossando le protezioni necessarie vanno a casa dei malati di Covid, o dei casi sospetti, per visitarli, somministrare terapie, fare il tampone ed eventualmente disporre il ricovero in ospedale. Tutte attività che i medici di famiglia non possono, e comunque quasi mai vogliono, fare.
Sarebbero uno strumento fondamentale per portare la sanità a casa del paziente. Ebbene, nessuno sa o è in grado di dire quante siano quelle attive in questo momento in Italia. L’unico dato certo è che siamo ben lontani dalle 1.200 previste dal governo. Forse, non si arriva alla metà. In ogni caso, è inutile provare a cercare dati. Alza le mani anche il ministero alla Salute. Basta ascoltare la risposta che la sottosegretaria Sandra Zampa ha dato a un’interpellanza dei Cinquestelle alla Camera il 30 ottobre scorso. A partire dalla premessa: “Le misure di contenimento della spesa dedicata ai costi del personale, che, come noto, negli ultimi anni hanno interessato il Servizio sanitario, hanno in effetti ingenerato, nel medio periodo, una grave carenza di professionisti nelle strutture del territorio nazionale”. E questo si era capito.
Una dottoressa e un paziente ricoverato nell’unità di terapia intensiva all’ospedale di Casal Palocco a Roma, 26 ottobre 2020 Il governo, spiega Zampa, ha stanziato il denaro ed è noto per quali professionisti è stato speso ma non si sa dove poi questi siano andati a lavorare. “Tuttavia, al fine di disporre di dati utili di pronta disponibilità in ordine al personale reclutato per l’attività di assistenza territoriale, anche in supporto alle citate Usca, o impiegato presso i dipartimenti di prevenzione, anche con mansioni di tracciamento dei contatti, voglio assicurare agli interpellanti che il ministero della Salute sta provvedendo a integrare i dati da richiedere alle Regioni, con una specifica richiesta in tal senso”. Insomma, per ora la risposta è un rotondo boh.
I medici di base Quando bisogna indicare i responsabili del flop delle cure domiciliari nel nostro Paese, regioni che non hanno sfruttato i finanziamenti a parte, c’è anche chi punta il dito contro i medici di famiglia, che non sarebbero abbastanza disponibili a seguire i loro pazienti quando sono a casa, anche solo telefonicamente. E così si tira fuori un vecchio problema. Questi professionisti, si sostiene, dovrebbero smettere di essere convenzionati e passare alle dipendenze del sistema sanitario. “È vero, le cure domiciliari non sono partite. Perché? Non siamo nelle favole, nessuno può pensare che se la principessa bacia il rospo quello si trasformi improvvisamente in principe”, azzarda con una metafora Domenico Crisarà, medico di famiglia di Padova, vicepresidente del sindacato Fimmg.
“Per decenni abbiamo chiesto di essere aiutati a intraprendere questa strada. Non solo, dal 2002 facciamo report per avvertire che mancano medici di famiglia, ma non è fregato niente a nessuno. Ancora, da decenni chiediamo di poter assumere segretarie ed infermiere e questo non si riesce ancora a fare. Non possiamo quindi pensare che tutti questi problemi si risolvano in pochi mesi: è vero che il lavoro sul territorio è il grande assente, ma non per nostra volontà”.
Gli ospedali Le immagini di questi giorni – le ambulanze in fila in attesa infinita per poter scaricare i pazienti nei pronto soccorso, i ricoveri bloccati, le terapie intensive in sofferenza – raccontano anche di un sistema ospedaliero in grande affanno. È come se mancasse la benzina. Perché nessuno ha pensato di fare il pieno nei mesi estivi, per viaggiare tranquilli in autunno. O meglio, si è messo il minimo necessario per non restare a secco. Senza personale la macchina non può andare avanti. Non si aprono letti in più. Non si fronteggia il super afflusso di pazienti ai pronto soccorso. Non si avviano strutture esterne, in fiere o capannoni. Il governo ha investito soldi, a più riprese, per l’assunzione di medici, infermieri e altri professionisti sanitari. Il personale, in certi casi, è entrato. Ma, come vedremo, non ne è stato reclutato abbastanza.
Altre volte non è stato neppure cercato dalle regioni. E così, questo autunno negli ospedali è caccia ai letti per i pazienti Covid, con conseguente riduzione dell’attività destinata agli altri malati. A breve, resteranno solo le urgenze e i casi gravissimi. Ogni giorno infatti, con 1.000-1.200 ricoveri in più bisogna chiudere 50-60 reparti di medicina, chirurgia generale, gastroenterologia, pneumologia e altre specialità per lasciare spazio alle persone colpite dal coronavirus.
Secondo il ministero della Salute, al 25 di ottobre sono stati assunti, grazie agli investimenti fatti a partire da marzo, 36.355 operatori. Di questi 7.650 sono medici, 16.570 infermieri, 7.730 operatori socio sanitari, 4.385 altri professionisti. Il numero assoluto appare importante, ma analizzandolo attentamente si comprende come non sia poi così alto. E infatti le organizzazioni sindacali dei vari professionisti lamentano carenze di organico.
I medici che mancano Assunti a termine, i 7.650 medici entrati già a primavera non hanno granché aiutato il sistema sanitario. “Intanto bisogna considerare che 6 mila di quei colleghi hanno avuto contratti libero professionali, che io definisco “usa e getta”. Del tipo: ti sfrutto durante l’emergenza e poi arrivederci e grazie. Non hanno previdenza, assicurazione, devono pagarsi la tutela legale”. Carlo Palermo è il segretario del principale sindacato degli ospedalieri, l’Anaao. Conosce bene i dati ma alcune cose gli sfuggono. “Non sappiamo con precisione quanti di questi 7.600 medici siano ancora in servizio. Qualcuno sicuramente ha smesso, magari si è trovato un posto migliore, cioè a tempo indeterminato, in una clinica”. Comunque sia, anche se fossero tutti rimasti nel pubblico non basterebbero.
Nel servizio sanitario italiano lavorano 115 mila camici bianchi (106 mila a tempo indeterminato e gli altri a tempo determinato). Già così i nuovi assunti rappresenterebbero una quota non altissima, il 6,6% del totale. Ma non si può parlare realmente di un rinforzo. “Il punto è che siamo in un periodo di curva pensionistica molto alta e per l’appunto ogni anno escono 6-7 mila colleghi”. Lo sforzo per le assunzioni, quindi, è servito giusto ad assicurare il turn-over, per di più tirando dentro dei precari. La capacità di assistenza ospedaliera è quindi rimasta sostanzialmente la stessa rispetto al periodo precedente all’emergenza. Ma fare riferimento agli anni prima di questo sciagurato 2020 non è una buona idea. “Nel 2009, in prossimità della grande crisi del debito sovrano – sostiene sempre Palermo – i medici degli ospedali pubblici erano 6 mila di più, quindi non si può davvero dire che adesso abbiamo un sistema più forte per affrontare il Covid”.
Infermieri, medici e pazienti dell’ospedale di Padova, 8 maggio 2020
Con questi organici di camici bianchi, è difficile aumentare i letti. Nel decreto Rilancio si chiede di mettere 3.500 posti di terapia intensiva in più, rispetto ai 5.200 di partenza, e 4.225 di sub intensiva, che già esistono ma devono essere arricchiti tecnologicamente con monitor e altri apparecchi. “Nel testo – dice Palermo – non sono stati previsti i medici necessari”. Ci vogliono tra i 2.000 e i 2.500 anestesisti in più e altrettanti internisti, infettivologi, pneumologi per attivare quei posti, sempre secondo l’Anaao. Secondo l’Aaroi, il sindacato degli anestesisti, con le disponibilità di personale attuali, anche a spremere al massimo il sistema, non si possono attivare più di 7.000 posti intensivi. Il problema non sono dunque i ventilatori che il commissario Arcuri ha messo a disposizione. Ma la mancanza di spazi e di personale per farli funzionare.
Ma in generale quello dei letti è un altro problema italiano che ovviamente rende più difficile affrontare questa nuova ondata di epidemia. Di quelli definiti “per acuti” (escluse cioè le riabilitazioni e le lungodegenze) ce ne sono 3,2 per mille abitanti, cioè circa 192 mila. Sono 90 mila in meno rispetto al 2000 e 45 mila in meno rispetto al 2010. Se si guarda ad alcuni Paesi confinanti, per non andare troppo lontano, tutti hanno una dotazione più importante. In Germania sono 8 per mille abitanti, in Austria 7 per mille, in Francia 6 per mille.
I trasporti e i soldi mai spesi In previsione di questa seconda ondata, a giugno erano stati assicurati trasporti, anche locali, sicuri, e la ripresa della scuola. Due questioni strettamente legate, perché le scuole muovono centinaia di migliaia di persone ogni giorno sui mezzi pubblici. E i mezzi pubblici sono considerati uno dei principali veicoli di contagio. Cinque mesi dopo il Governo è stato costretto a ridurre la percentuale di posti disponibili sui mezzi, lasciando vuoto un posto su due. E le scuole cominciano a chiudere. Tutte in alcune regioni.
Cinque Regioni del Nord a guida centrodestra – Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia – il 23 giugno 2020 hanno scritto alla ministra dei Trasporti, Paola De Micheli, per chiedere l’autorizzazione “al riempimento dei bus fino alla capienza massima”. La Liguria e il Veneto il 26 e il 27 giugno hanno firmato ordinanze per il riempimento al 100 per cento. L’ammissione del fallimento porta la data del 29 ottobre e arriva con le parole del presidente, Giuseppe Conte. “Esiste un’oggettiva difficoltà di mantenere il rigoroso rispetto delle regole sui mezzi di trasporto” dice. Quindi, aggiunge: “C’è stato un mancato utilizzo dei fondi messi a disposizione dal governo agli enti locali: soltanto 120 milioni sui 300 erogati dallo Stato”.
In realtà le cose sono un po’ più complesse di come Conte le ha raccontate. È vero, infatti, che il Governo ha messo a disposizione fondi per nuovi bus urbani ed extraurbani e un aumento delle corse dei treni. Che, però, non è possibile aumentare. Ma è anche vero che quei soldi non sono mai arrivati. “Il governo non ha ancora approvato il decreto attuativo per il riparto dell’anticipazione dei primi 150 milioni sui 300 milioni di risorse stanziate dallo Stato”, hanno accusato dagli enti locali.
Basta tornare al 31 agosto scorso, quando i contagi sono sotto la soglia dei mille ma già sette volte quelli d’inizio mese, per capire come stanno le cose. In un incontro tra Regioni e Governo, la Conferenza unificata, le ventuno amministrazioni chiedono altri 300 milioni per poter offrire un servizio allargato ai lavoratori che stanno rientrando dalle ferie, agli studenti che da lì a due settimane riprenderanno scuola. Sono stati trovati, attraverso due decreti – “Rilancio” e “Agosto” –, 600 milioni in surplus per il trasporto pubblico, che dallo Stato già riceve 5 miliardi l’anno ordinari. Paola De Micheli, ministra con una lunga militanza nel Pd, dove si è iscritta a 17 anni, allenata alle emergenze dal ruolo di commissario straordinario per il terremoto dell’Italia Centrale, risponde ai presidenti: “Trecento milioni in cassa non li ho, ma il governo garantisce per voi. Le Regioni anticipano e lo Stato li restituisce a fine dicembre, con la prossima Finanziaria”.
L’8 settembre il decreto “trasporti aggiuntivi” è in Gazzetta ufficiale: non ci sono ancora i “testi attuativi”, ma questo non impedisce di portare subito la capienza degli autobus dal 50 per cento, come deciso nella primavera del lockdown, all’80 per cento nonostante il Comitato tecnico scientifico abbia posto, nel verbale numero 102, un limite massimo al 75 per cento, una trincea, tra l’altro, che si può raggiungere “solo in situazioni di eccezionalità”. Di più: “Gli studenti sui mezzi pubblici – dice il Comitato – sono compresi tra il 13,7 per cento e il 24,7 per cento”. E invece, otto settembre, le tratte del trasporto pubblico possono essere coperte da bus carichi all’80 per cento. Su un mezzo da 16 metri vuol dire cinque persone in piedi in un metro quadrato: margini da discoteca, altroché distanziamento. “L’effetto di quel decreto era preoccupante in maniera oggettiva” dice oggi a Repubblica la ministra Paola De Micheli.
Alcuni studenti si accalcano per prendere il bus. Padova, 24 Ottobre 2020 Troppa gente, quindi. E anche poche misure di prevenzione, a partire dagli igienizzanti a bordo dei mezzi. Ma soprattutto pochi soldi. Poche regioni anticipano davvero, come richiesto dall’esecutivo. I numeri sono inquietanti: i nuovi autobus messi su strada sono appena 2.247. Al 29 ottobre i soldi anticipati da tutte le regioni e le due province autonome per gli investimenti aggiuntivi sul trasporto sono stati 70,393 milioni di euro (dei 300 che potevano mettere a bilancio grazie alla copertura dello Stato). Il 23,5 per cento del totale.
Arrivano i banchi. Le scuole chiudono I risultati inevitabili del fallimento del sistema trasporti sono stati due: il picco dei contagi e la crisi del sistema scuola con chiusure ormai in tutta Italia. Si è detto della difficoltà del sistema di tracciamento a reggere i numeri inevitabilmente imposti dall’istruzione. Un recente studio di Lancet ha documentato come le scuole siano uno dei principali riproduttori dell’infezione: 18 per cento in quattordici giorni, 24 per cento in ventotto. Non si è tenuto conto però dei principali strumenti di prevenzione attivati: mascherine per tutti (che ci sono state) e distanziamento dei banchi, sul quale invece ci sono stati non pochi problemi.
I famosi banchi monoposto – sia quelli con sia quelli senza rotelle – dovevano essere consegnati prima dell’inizio delle scuole. Scadenza poi slittata al 30 ottobre. A novembre, quelli consegnati erano il 63 per cento, nonostante lo sforzo immane delle aziende che hanno firmato i contratti con la struttura commissariale di Domenico Arcuri. Ne mancavano 900.000. “Ieri siamo andati in Puglia per portarne un carico – racconta uno dei produttori -, ma le scuole avevano già chiuso”. Tra gli strumenti di mitigazione si era poi parlato della possibilità degli ingressi scaglionati, per decongestionare scuole e trasporti. Istituti aperti il pomeriggio, doppi turni. Era stato pensato un tavolo istituzionale. Non c’è stata nemmeno una riunione. La ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha detto, senza repliche: “Le scuole si gestiscono in autonomia”. Infografica di Paula Simonetti La cassa piena Nel rimpallo di responsabilità tra Governo e Regioni, che si parli di tracciamento, tecnologia, assistenza sanitaria, trasporti, scuole, il virus ha approfittato dell’incapacità cronica della nostra macchina burocratica di assumere decisioni e impegnare risorse. Che in parte non sono state neppure spese. Il decreto Rilancio prevedeva tra le altre cose i piani di edilizia ospedaliera. Imponeva alle Regioni di spedire entro 30 giorni al ministero della Salute l’elenco dettagliato degli interventi per rafforzare le terapie intensive, ristrutturare i Pronto soccorso e aumentare i posti letto ordinari da qui ai prossimi tre anni. Un cronoprogramma, vista l’entità dei lavori, necessariamente esteso. Ebbene, la maggior parte degli enti territoriali ha inviato entro il termine di fine luglio una semplice lista con l’indicazione delle strutture da ampliare e relativa previsione di costo. Nient’altro. Nessuna specifica sui lavori da realizzare.
Benché gravemente incomplete, il ministero della Salute le ha comunque approvate e girate al commissario Arcuri, che però ha dovuto ricominciare tutto daccapo. “Questi non sono piani di riorganizzazione ospedaliera, sono solo dei budget di spesa”, è stato osservato con disappunto. Uno per uno, i piani regionali sono stati riscritti. E a fine settembre, con un paio di mesi di ritardo sulla tabella di marcia, sono stati approvati 1.044 interventi. Il 23 di quel mese la conferenza Stato-Regioni ha dato via libera allo schema di attuazione e delega al commissario; il 2 ottobre sono partite le gare per 713 milioni con procedura d’urgenza; il 12 si sono chiuse le offerte a cui hanno partecipato più di 500 aziende. A seconda ondata già abbondantemente in corso.
Studenti scioperano in piazza a Torino, 25 settembre 2020
Non è andata meglio con il bando per le ambulanze. La presentazione delle offerte per la fornitura di autoambulanze e automediche è scaduto alle 18 del 3 novembre 2020: a otto mesi dall’inizio dell’epidemia, mentre migliaia di persone già premevano per arrivare in pronto soccorso, senza trovare i mezzi per approdarvi. L’accordo-quadro è previsto per questa settimana. Ma tra graduatorie e assegnazione dei vincitori è difficile che le prime siano disponibili entro Natale. Ha fatto addirittura peggio il ministero dello Sviluppo, di concerto con l’Istruzione, sul potenziamento del wi-fi nelle scuole, indispensabile per la didattica a distanza, coi prof in presenza: le offerte per i servizi di connettività a banda ultralarga dovranno infatti pervenire entro il 23 novembre e i lavori essere completati entro la fine del 2023 (tra tre anni), con una scadenza per il Natale dell’ anno prossimo di almeno un 25 per cento del totale. Aspetta e spera.
E non siamo nemmeno riusciti a spendere tutte le risorse assegnate per l’emergenza. Dai primi decreti a sostegno di famiglie e imprese sono avanzati oltre 5 miliardi, poi confluiti nell’ultimo dl cosiddetto Ristori, varato in consiglio dei ministri per indennizzare bar e ristoranti costretti a chiudere alle 18. Sono lì finiti, ad esempio, 860 milioni di bonus vacanze che pochissimi hanno richiesto, a riprova del flop di una misura di difficile fruizione. Oppure il miliardo e 680 milioni messo in campo per finanziare gli accordi che Regioni e Province autonome potevano stringere con i datori di lavoro privati per riconoscere la cassa integrazione in deroga: una norma talmente farraginosa da essere rimasta inattuata.
Il “no al Mes”, o di un suicidio ideologico
E dire che c’era un modo per evitare il naufragio. E si chiama Mes. Più precisamente, è la linea pandemica del meccanismo di stabilità europeo sulla quale l’Italia tratta – con il sostegno della Francia – fino a ottenere, a fine aprile, che non abbia condizioni aggiuntive. Che sia in sostanza completamente diverso dal Mes conosciuto dalla Grecia ai tempi della Troika. Un prestito a tasso zero di 37 miliardi di euro, con parte degli interessi addirittura negativi.
Oggi, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sostiene di non aver mai pensato di prenderlo. Ripete che sarebbe uno stigma che potremmo pagare sui mercati, se ad accedervi fosse solo l’Italia. Ma sta raccontando solo una parte della storia. Perché tra aprile e metà giugno i tentativi del governo di convincere i Cinquestelle a non dire no al Mes, per la cui attivazione serve un passaggio in Parlamento, sono incessanti. La prova sono le numerose riunioni che si tengono a Palazzo Chigi – un collaboratore del premier ne conta 15 – per spiegare ai parlamentari più riottosi, tra cui Raphael Raduzzi e Alvise Maniero, che non ci sono condizionalità aggiuntive, che la storia del “prestito senior”, cioè da restituire prima degli altri, è un falso problema, che il regolamento che regola il prestito non potrà essere cambiato a piacimento in un secondo momento, come continuano a dire M5s e la destra. Con in testa la sottosegretaria agli Affari Europei M5s Laura Agea.
È noto quel che accade tra inizio aprile e giugno. Compresa la gazzarra inscenata da Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Vale tuttavia la pena non dimenticare quel che accade il 15 giugno, all’inizio di un’estate che doveva servire a rafforzarci e ad alzare gli argini contro la seconda ondata, quando uno degli esponenti di governo più vicini al premier ammette: “Non possiamo permetterci di prendere il Mes. Finiremmo per spaccare i 5s per poco più di 30 miliardi, mettendo a rischio tutto. Meglio fare un altro scostamento di bilancio che spaccare la maggioranza e ammazzare i Cinquestelle. Nel Movimento questa roba è kriptonite. Abbiamo fatto quindici riunioni per convincerli, ma non c’è stato niente da fare”.
I 37 miliardi per l’Italia, a saperli spendere (e in tempo), sarebbero stati una manna per il nostro sistema sanitario. Sarebbero potuti arrivare già in estate e non solo nel 2021, come il Recovery fund. Non sarebbe stato semplice, ma era una strada. Che il governo non ha potuto tenere in considerazione per la resistenza ideologica del suo partito di maggioranza. E per il sorprendente appoggio dello stesso ministro dell’Economia Gualtieri, che un mese fa è arrivato a ripetere la teoria dello stigma facendo infuriare il suo partito. E che è tornato a parlare di Mes solo nelle ultime ore, davvero troppo tardi.