Il calcio ungherese è fermo alla scuola danubiana, passata di moda 60 anni fa?
«Mio nonno Gino aveva due miti: il Grande Torino e il calcio ungherese, mi recitava le formazioni a memoria. Credo di aver realizzato i suoi sogni: a nove anni sono entrato nel vivaio del Toro e da adulto ho vinto lo scudetto con la "sua" Honved».
È difficile aggiornare un mito?
«È effettivamente un calcio di stile antico. Si gioca con lentezza, non manca la tecnica ma l’intensità sì. In nazionale ho cercato di portare il pressing e una mentalità meno passiva».
Ma lei come è capitato qui?
«È una storia che parte da lontano».
Da dove?
«Dal Messico, fui il primo italiano a giocare lì. Era il 1995, il vicepresidente del Club America era allo stadio per Porto-Samp, quarti di Coppa delle Coppe. Mi contattò tramite Dossena: "Mi serve una parete come te". Intendeva un muro difensivo, io ormai da terzino mi ero trasformato in libero. Ero svincolato, io e mia moglie Mariella e ci pensammo su: perché no? Splendida esperienza, eravamo vicini di casa di Kalusha Bwalya e in panchina c’era Marcelo Bielsa».
Ma che c’entra con l’Ungheria?
«Là c’era anche Gaudino, l’italo-tedesco. Quando tornò in Germania mi chiamò: all’Eintracht cercano un libero, faccio il tuo nome? A Francoforte diventammo amici di un ristoratore italiano , Pippo, che qualche tempo dopo aprì un locale a Budapest. Andammo a trovarlo, ne approfittammo per una vacanza. Io ero scoraggiato, allenare in C in Italia è desolante, se anche fai un’impresa salvando una squadra di disperati non ti si fila nessuno. Ero a un bivio, tant’è che mi ero iscritto a un corso di formazione per lavorare con mio fratello commercialista. Ma a Pippo venne un’idea: "All’Honved è arrivato un dirigente italiano, Fabio Cordella. Cerca un allenatore, perché non lo chiami?". A me non piace offrirmi, ma Pippo insistette e feci quella telefonata. Mi fissò un colloquio, mi prese».
Che ne sapeva del calcio ungherese, in quel 2012?
«Tutto quello che era nei racconti di mio nonno, ma l’Honved era ben lontana dai fasti di un tempo. I primi anni furono di alti e bassi, me ne andai e tornai, finché facemmo il miracolo».
28 maggio 2017, Honved campione d’Ungheria 24 anni dopo.
«È stata un’impresa a livello del Leicester. Avevamo il budget più basso del campionato, avevo giocatori che venivano ad allenarsi in autobus perché non potevano permettersi un’auto. Io prendevo 2800 euro al mese».
Ma se ne andò una seconda volta.
« Il club non rispettò i patti. Mi prese lo Streda, squadra slovacca ma in una regione di etnia ungherese, così rimasi nei radar del calcio magiaro e nel 2018 mi offrirono la nazionale».
Da chi ha imparato il mestiere?
«Bielsa e Lucescu, che ho avuto il Brescia. L’ufficio del Loco era stipato di vhs, stava da mattina a sera a studiare partite. E quando ti parlava era diretto, senza mediazioni. Mi ha insegnato che il gioco parte dai difensori: un’eresia, 25 anni fa.
Da Lucescu, grande insegnante, ho preso le lezioni di tattica individuale: secondo lui in un professionista la tecnica è già matura, ma il senso tattico non si smette mai di affinarlo».
Lei cosa insegna ai suoi ungheresi?
«A uscire dalla loro comfort zone. Loro tendono a non emigrare, la federazione incentiva l’utilizzo dei giocatori locali e questo li agevola, le strutture ci sono ma manca la mentalità, oltre che insegnanti validi nelle fasce di età più sensibili».
Però ha un fenomeno, Szoboszlai.
«Lui è l’eccezione: il padre lo ha portato a Salisburgo quando aveva 14 anni. Farà una grande carriera. È forte anche Orbán del Lipsia, che è tedesco ma ha scelto la nazionale del padre ungherese».
E l’Orbán premier?
«L’ho incontrato diverse volte, si interessa molto. Nella sua città ha fatto costruire uno stadio in legno che sembra una chiesa e per rilanciare il movimento finanzia impianti e accademie. Con lui mi limito a discutere di pallone, ma posso dire che a Budapest si vive bene.
Abbiamo comprato un bilocale in centro e l’80% del tempo lo passo qui: è anche una questione di rispetto verso chi mi dà il lavoro».
Chi sa di Marco Rossi, in Italia?
«Forse neanche il sindaco di Pozzuoli, dove abitiamo. Qui magari sui giornali mi massacrano perché convoco Tizio e non Caio, ma c’è considerazione. In Italia non ho quasi più contatti. Di recente però ho fatto una bella chiacchierata con De Zerbi, che era tifoso del mio Brescia».
Con Mancini non ha rapporti?
«Abbiamo giocato insieme alla Samp, mi chiamava spesso quando alla Honved avevo suo figlio Andrea, poi più niente».
Neanche una telefonata istituzionale, da ct a ct?
«Mai più sentito».
Prima o poi lavorerà in Italia?
«No, non tornerei, in Italia non c’è cultura sportiva né pazienza. La federazione ungherese vorrebbe che impostassimo un programma a più lunga scadenza, l’Europeo mi intriga, però sto anche ricevendo offerte interessanti. Ma ho testa solo per i play-off».