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 2020  novembre 11 Mercoledì calendario

La crisi del carbone negli Usa

Era uscita dalla bancarotta appena tre anni fa. Ma Peabody, gigante del carbone «made in Usa» e prima società privata al mondo nel settore, è di nuovo a un passo dal Chapter 11. E questa volta potrebbe non riuscire a risorgere dalle ceneri. Il combustibile più inquinante oggi sembra infatti condannato a un declino irreversibile anche al di là dell’Oceano Atlantico, per motivi economici, prima ancora che politici. E il cambio della guardia alla Casa Bianca non può che accelerare il processo.
La sfiducia del mercato nei confronti di Peabody è rappresentata in modo evidente dalla reazione della Borsa: nella seduta di ieri a Wall Street la mineraria – il cui socio di maggioranza è l’ex creditore Elliott Management – ha perso oltre un quarto del suo valore, dopo che il management ha espresso «notevoli dubbi sulla capacità di mantenere la continuità aziendale». La capitalizzazione si è ridotta ad appena 83 milioni di dollari, dai 5,8 miliardi di giugno (e un record di oltre 20 miliardi nel 2008).
Il problema più impellente nasce dall’ultimatum di una compagnia assicurativa australiana, che ha imposto rigide condizioni per non ritirare una fideiussione relativa agli oneri per le miniere dismesse: oltre ad aumentare il collaterale a garanzia, Peabody dovrà convincere entro il 31 dicembre le banche creditrici ad alleggerire i covenant e i possessori di obbligazioni con scadenza 2022 ad allungarne la maturity. Impresa difficile, come riconosce la stessa società, avvertendo che il Chapter 11 potrebbe essere l’unica via d’uscita, considerate le condizioni del mercato e le pressioni sul bilancio, che pochi mesi fa l’hanno spinta a svalutare di 1,42 miliardi la miniera più importante, North Antelope Rochelle, nel Wyoming.
Anche il terzo trimestre è andato male per Peabody, che ha accusato una perdita netta di 67,2 milioni (il rosso un anno prima era di 82,8 milioni), mentre il fatturato si è ridotto del 40% a 671 milioni. Le vendite di carbone, anche a causa della pandemia, sono diminuite del 23% a 31,5 milioni di tonnellate. Ma a pesare non è solo la congiuntura.
Il futuro del carbone sembra definitivamente segnato ora che alla Casa Bianca c’è Joe Biden, che ha promesso la riadesione degli Usa agli Accordi sul clima e un piano da 2mila miliardi di dollari per la transizione energetica, che prevede tra l’altro di azzerare le emissioni nette del sistema elettrico entro il 2035.
Prima della politica, erano stati il mondo della finanza e le leggi dell’economia ad imporre anche negli Usa una svolta che sembrava ancora lontana tra il 2016 e il 2017, quando Peabody con il Chapter 11 era riuscita a cancellare debiti per 5,2 miliardi di dollari, la metà del totale. Oggi le istituzioni finanziarie disposte a sorreggere un produttore di carbone sono diventate rare, in tutto il mondo industrializzato. Ma soprattutto il carbone ha perso competitività, messo in crisi prima dallo shale gas e poi sempre di più dalle rinnovabili, che oggi in molte aree del mondo costano meno di qualsiasi fonte fossile per la produzione di elettricità. L’Agenzia internazionale dell’energia, in un rapporto diffuso ieri,prevede che nei prossimi cinque anni la capacità di generazione da fotovoltaico ed eolico raddoppierà, superando quella delle centrali a gas nel 2023 e quella delle centrali a carbone nel 2024.