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 2020  novembre 11 Mercoledì calendario

L’altra faccia di Kamala Harris

Il cambio di scena è netto: di là, accanto al presidente misogino, un vice che incarna il prototipo del conservatorismo americano. Di qua la prima vicepresidente afro-asian-americana.
Kamala Harris si presenta come l’elemento di maggior discontinuità nell’era post-Trump eppure il modo in cui la sua figura viene esibita dal circuito mainstream fa pensare a un maquillage in cui il genere e il colore della pelle sono disgiunti dalle idee politiche.
I natali di Harris, in realtà, promettevano bene: nata a Berkeley nel 1964, figlia di due accademici impegnati nel movimento per i diritti civili, l’aria della rivolta la respira nel passeggino. Con la laurea a Harvard e poi la Law School imbocca la carriera di avvocato ed entra nell’ufficio del procuratore di Oakland dove stringe i legami con l’alta società di San Francisco e si fa la nomea di “sceriffa”: durante i primi tre anni di procuratore distrettuale il tasso delle condanne sale dal 52 al 67%.
A sostenere che Kamala Harris non fosse “un procuratore progressista” è il progressista New York Times in un articolo del 2019 a firma di Lara Bazelon, professoressa di diritto ed ex direttrice del Loyola School Project for the Innocent di Los Angeles: “Quando i progressisti l’hanno esortata ad accettare le riforme della giustizia penale come procuratore distrettuale e poi procuratore generale dello stato la signora Harris si è opposta o è rimasta in silenzio”. La dura bacchettata riguarda l’atteggiamento aggressivo contro i genitori dei figli trovati a marinare la scuola, quasi tutti provenienti da famiglie della comunità nera a basso reddito.
Eppure, sul razzismo proprio lei era andata all’attacco di Joe Biden rimproverato di essersi opposto alla politica del busing, cioè il trasporto dei ragazzi neri nelle scuole popolate dai bianchi. Qualche giorno dopo quel dibattito, però, è il Washington Post a dimostrare che la sua posizione “non appare così distante da quella di Biden”.
Harris si mostra dura anche sulla pena di morte: “Quando un giudice federale della contea di Orange – scrive ancora Bazelon – ha stabilito che la pena di morte fosse incostituzionale nel 2014, la signora Harris ha presentato ricorso”. E sul sistema giudiziario ha posizioni “classiste”, ma al contrario, sui detenuti: quando nel 2014 la California è chiamata a ridurre il sovraffollamento delle carceri – per i detenuti non pericolosi e che avessero scontato metà della pena – l’ufficio di Kamala Harris sostiene il mantenimento al lavoro dei detenuti non pericolosi perché altrimenti il sistema carcerario avrebbe perso manodopera a basso costo.
I legami con l’élite si confermano nella rinuncia a perseguire Steve Mnuchin, attuale Segretario al Tesoro di Donald Trump. La notizia fu diffusa dal giornale indipendente The Intercept e riguardava “una condotta scorretta diffusa” assunta da Mnuchin alla guida della sua banca, la OneWestBank. Si trattava di oltre un migliaio di violazioni legali nella sottosezione prestiti, ma “l’ufficio di Harris”, scrive Intercept, “senza alcuna spiegazione, ha rifiutato di perseguire il caso”.
I rapporti con le corporations sono particolarmente buoni nel caso delle Big Tech: in qualità di Attorney General dello Stato Harris non ha fatto nulla per limitare lo strapotere di Facebook, soprattutto per quanto riguarda la privacy. Anzi è noto che considerava le Big Tech “un partner” utile a presentarla come stella nascente nella politica americana.
Kamala Harris è il volto centrista e moderato del Partito democratico in piena continuità con Hillary Clinton della quale ha ereditato, al tempo della sua campagna per le primarie, gran parte dello staff. Un punto di incontro nevralgico tra le due è Michèle Flournoy, già vicesegretaria alla Difesa di Obama, figura di spicco del mondo militarista che si appresta a prendere la guida del Pentagono. Ma i rapporti sono forti anche a Wall Street dove la sua scelta da parte di Biden fu accolta dai vari Ceo al grido di: “Il partner perfetto”.
In una fase degli Stati Uniti attraversata dal peso del “ginocchio sul collo” una presenza come la sua alla Casa bianca – una “mulatta” secondo le scempiaggini di certa stampa – costituisce una risposta a quanto avvenuto nella società americana. Ma per le sue idee e i suoi atti Kamala Harris rappresenta quel partito democratico tradizionale che ha già favorito l’avvento di Trump e che, come nota la rivista Jacobin, “vuole riportarci al 2015” come se nulla fosse successo. Sperare che non accada di nuovo è lecito.