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 2020  novembre 11 Mercoledì calendario

1QQAFA10 Ritratto di Stefano Benni

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Stefano Benni, il lupo, il lupone Stefano Benni. Sono anni che è sparito dai radar. Come se si fosse volontariamente isolato. Lo vedevo al bar La linea di Bologna. Quel bar aveva una sala al primo piano con accesso attraverso una scala a chiocciola e, che io sappia, lì dentro ci hanno sempre fatto incontri con autori.
Collocato tra un portico di fianco alla libreria Giovannino Stoppani e Piazza Maggiore, un sabato in cui ero andato alla Montagnola a comprarmi un paio di jeans usati con le toppe, mi ero allungato per andare a prendere un disco da Nannucci e lì fuori, al tavolino, lo vidi. Non ricordo esattamente se ero già all’Università o se ero ancora alle Superiori, ma ricordo che al tempo -fine anni ’80, primi anni ’90- Benni era un vero e proprio autore di culto perché scriveva su Cuore e io non me ne perdevo un numero. Aveva sfornato due libri, giudicati molto interessanti, che tra ventenni ci passavamo con più o meno entusiasmo. Chi non leggeva, allora, Bar Sport, Il Bar sotto il mare e poi, nel 1992 La compagnia dei Celestini? Lui era lì, al tavolino, con una tazzina di caffè e un liquido ambrato in un bicchiere trasparente. Faceva effetto vederlo lì. Anche se si sapeva che gravitava attorno a Bologna, era comunque strano vedere uno scrittore fare qualcosa di normale come starsene a un tavolino a bersi un caffè. Consideriamo il fatto che in quegli anni gli scrittori televisivi erano Gervaso, Bevilacqua, Romano Battaglia, De Crescenzo... altra generazione, altra pasta. Aveva poco più di 40 anni, li al tavolino e niente, si stava facendo i fatti suoi. Io stavo andando a comprare un disco, o al limite una cassettina perché da Nannucci si poteva trovare di tutto con poco denaro. Che spasso girare per Bologna e vedere tutta quella opulenza emiliana: pieno di bar, di negozi, di roba, di tossici, di gente fuori dall’ordinario. Crestoni, capelli colorati, ragazze pallide sciupate, bellissime.
C’era Willy Shit, l’uomo più tatuato del mondo. Suonava il suo didjeridoo con quelle labbra unte che si appoggiavano al legno dello strumento. Poi c’era un tipo in moto, muscoloso, sempre fermo in Via Indipendenza. Suonava un sax ossidato. C’era il negozio dei darkettoni, Inferno-suicidio, dove si potevano comperare gli anfibi con la punta in ferro e lì vicino Oreamalià dove Luca Carboni andava a tagliarsi i capelli. «Perdo la testa, perdo la testa per un paio di occhiali da sole. Perdo la testa per gli occhiali da sole. Un’altra lampada al viso per non accorgersi più dell’inverno» Cantava Carboni. Ero rimasto a Benni e alla sua pausa caffè alla Linea. Lui era lo scrittore che raccontava in tono surreale, scanzonato, grottesco, con dialettismi e giochi di parole, quel che in quegli anni vedevamo tutti: un’Italia fatta di Luisone, scemi da bar, bigliardi, flipper eccetera. Logico che l’autore si fosse nutrito di realtà vera, ma anche di tutta la linguistica, la semiotica, il teatro dell’assurdo, il surrealismo che gravitavano attorno all’Università di Bologna in quegli anni. A me quel suo tono svagato stava stretto. Lo leggevo perché lo leggevano le ragazze e mi passavano i suoi libri. Al tempo le ragazze leggevano i libri. Da non credervi vero? Io da ragazzo cercavo più realismo, e personaggi malati, fuori dall’ordinario, deraciné, fricchettoni, possibilmente gente bevuta. Gente che mi raccontasse il fuoco della giovinezza, per potermi rispecchiare o potermi illudere di essere bello e dannato come Rimbaud. Lui non faceva questo.
Poi, veloci, sono passati gli anni e c’è una foto con Benni eravamo esattamente in un bar, all’esterno, perché volevamo mangiare un panino veloce, un bicchiere di vino bianco fresco frizzante e poi andare al Nuovo cinema teatro Italia di Soliera a parlare di libri. Arrivò in treno da Roma con la sua ufficio stampa. Ricordo che c’era stato un equivoco sulla questione del pagamento di un biglietto, due biglietti. Così quel giorno io ero nero di rabbia. Benni non ne sapeva nulla, perché le questioni di questo genere le aveva sbrigate il suo ufficio stampa personale: una simpaticissima ragazza sulla quarantina, con la quale abbiamo chiarito tutto in fretta. Però io ero di umore nero, tanto più che non mi ricordavo nemmeno l’episodio di Bologna, alla Linea, sul finire degli anni ’80, sennò per stemperare avrei tirato fuori l’episodio. Benni mi era simpatico da matti, parlava di una casa a Bologna, in cui abitava anche lui, ma in cui per la maggior parte del tempo, se non ricordo male, ci abitavano i suoi figli. Benni mi parlava di questa casa, di teatro, di soldi concernenti qualcosa che aveva a che fare con dei contratti. Io aspettavo il panino e il vino, non registravo nella testa quel che mi diceva perché tra scrittori, si sa, la parola non è importante e per studiarsi, anziché ascoltare parole, guardiamo la mimica, sensazioni. Siccome gli scrittori devono continuamente mentire per raccontare storie, pensavo, e penso tuttora, diventano, diventiamo, delle specie di bipolari dalle doppie, triple vite e così via. Benni mi parlava di quella casa a Bologna dal pavimento sgarruppato. Mi parlava di una casa antica i cui pavimenti in cotto facevano una specie di onda da una stanza all’altra. Forse era una visione, forse era realtà. Però non ricordo nulla, in particolare perché, come dicevo prima, una delle priorità, per chi scrive, è quella di non dare importanza alle parole. A pensarci bene Benni, alla fine, ha scritto poco.
Vabbé, panini arrivati, vino bianco fresco frizzante arrivato, rimborsi chiariti. La serata è andata. Io di solito, anche se rido, ho le balle girate ma fa niente.
Oggi mi viene in mente Stefano Benni perché passando per la Feltrinelli ho visto la copertina del suo nuovo romanzo intitolato Giura per Feltrinelli. Sono giorni in cui mi sto mettendo nell’ordine d’idee di iniziare a fare mente locale per scrivere il nuovo romanzo e quella copertina, con la raffigurazione di una giostra per bambini, ha destato la mia attenzione perché proprio in questi giorni sto continuando a pensare ai luna park, alle fiere, alle sagre. Sono giorni in cui ho visioni e vedere, in queste visioni, la copertina di Giura non mi ha lasciato indifferente. Così alla fine ho trovato il libro appoggiato in sei copie nella scansia delle classifiche e l’ho comprato. Giura ha tre parti che ne costituiscono la storia. Copertina bellissima. Tante volte i libri li leggiucchio, li assaggio, li appoggio vicino senza leggerli del tutto. Per me la scienza infusa esiste. Nel libro c’è un bambino, chiamato Febo, che fin dall’inizio si arrampica su un albero per raccogliere le noci. Già questa prima scena mi piace molto. Poi Febo schiaccia i gusci per romperli e fa scorpacciate di noci assieme al nonno. Benni ad esempio non usa il termine gheriglio, anche se sa cos’è, ma non lo usa consapevolmente. Non vuole sembrare un letterato. Questa può essere una bella lezione: non usare la parola più difficile, se c’è il sinonimo. Poi c’è Luna all’ospedale, ci sono lettere di una medichessa, c’è la figura di un padre. Luna è la Senzavoce, la dea. Ognuno parla in prima persona. Ci sono certi autori che pur non piacendoci, possono servire. Io Benni me lo vedo così: uno scrittore con un cappellaccio in testa a larghe tese, marrone, che va in giro con un sottofondo di blues sempre con sé. Benni, il lupo, col cappellaccio in testa, ulula alla luna.