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 2020  novembre 10 Martedì calendario

Tipi bizzarri nella Rsi

In Francia, dopo l’occupazione tedesca del 1940, importanti personalità del campo antifascista decisero di collaborare con i nazisti: il socialista Marcel Déat, il radicale Gaston Bergery, gli ex comunisti Jacques Doriot e Paul Marion. Da noi venne l’ora di Nicola Bombacci, tra i fondatori nel 1921 del Partito comunista d’Italia, in rapporti personali con Lenin, che, avvicinatosi già negli anni Trenta a Benito Mussolini, lo seguirà a Salò. Per finire, assieme a lui, fucilato a Dongo e appeso al distributore di benzina di piazzale Loreto. Ma un interessante libro di Mimmo Franzinelli, Storia della Repubblica sociale italiana (1943-1945), che sarà pubblicato da Laterza il 19 novembre, nel quadro di un’eccellente disamina di quell’esperienza storica, punta i riflettori su altri due personaggi, già all’attenzione di Renzo De Felice, che in quel contesto drammatico, si proposero di costruire un «ponte» tra Mussolini e gli antifascisti.
Il primo è Carlo Silvestri (1893-1955): già giornalista al «Corriere della Sera», social-riformista, che nel 1924 era stato il principale accusatore di Mussolini stesso per l’intricata vicenda legata al rapimento e all’uccisione di Giacomo Matteotti. Strana storia la sua, molto ben descritta da Gloria Gabrielli in Carlo Silvestri. Socialista, antifascista, mussoliniano (Franco Angeli). Silvestri aveva conosciuto Mussolini quando erano entrambi socialisti e aveva appoggiato nel 1914 il suo passaggio dal pacifismo all’interventismo. Nel 1920 poi, Silvestri aveva provato a giustificare il nascente squadrismo in quanto «legittima reazione alle violenze rosse». Ma, dopo aver indagato, sul «Corriere» ne aveva denunciato «gli eccessi». E, come risposta, aveva ricevuto dagli squadristi un pestaggio che lo aveva fatto finire in ospedale. Dopo aver puntato il dito contro Mussolini per il delitto Matteotti, Silvestri era stato segretario generale delle Opposizioni nella secessione parlamentare dell’Aventino. Nel 1925 fu processato e (in ottobre) nuovamente picchiato dalle camicie nere alla stazione di Milano, ciò che gli provocò una commozione cerebrale. Sarà poi radiato dall’Albo dei giornalisti e spedito al confino a Ustica, Ponza e Lipari.
Tornato a Milano nel 1932, è una persona diversa. Scrive a Mussolini lunghe lettere sull’interpretazione di ciò che è accaduto nei primi anni Venti, ma il Duce non risponde. Ai tempi della guerra d’Etiopia scrive ancora, stavolta ai governi inglese e francese per spiegare le ragioni dell’Italia. Anche qui nessuno lo prende in considerazione. Chiede a questo punto la tessera del Partito nazionale fascista. Gli viene rifiutata. Quando l’Italia nel 1940 entra in guerra, viene internato a Chieti. Il medico personale di Mussolini, l’ex socialista Luigi Veratti, riesce a farlo liberare e lui scrive al dittatore un messaggio di ringraziamento untuoso a tal punto da far annotare al capo della segreteria politica del Duce: «È un buffoncello».
A quel punto Silvestri comincia a inondare di missive lo stato maggiore del Pnf e del governo. L’ambasciatore Raffaele Guariglia chiede al capo della polizia un’opinione sull’affidabilità di quel grafomane. «Brava persona», gli risponde Carmine Senise, «ma da colloqui che, dietro sua richiesta, ho avuto qualche volta con lui, ho tratto il convincimento che non sia completamente sano di mente». Mussolini continua a ignorarlo. Almeno in apparenza. E arriviamo al 1943: la seduta del Gran consiglio del 25 luglio che porta alla caduta del fascismo; l’armistizio dell’8 settembre; la divisione dell’Italia in due con la nascita a Nord della repubblica di Salò. In novembre, a Milano, Silvestri viene arrestato a seguito di un attentato all’ufficio turistico tedesco. Stavolta è Mussolini in persona a intercedere per farlo rimettere in libertà. Lui lo ringrazia con lettere fin troppo affettuose in cui addirittura lo chiama «papà» (nonostante abbia appena una decina di anni meno di lui).
Finalmente Mussolini lo riceve e nei primi colloqui tornano a parlare dell’uccisione di Matteotti. Il Duce lo convince che, all’epoca, era in procinto di «aprire ai socialisti» e che la «destra», per ostacolare questo disegno, gli avrebbe gettato tra i piedi quell’ingombrante cadavere. Silvestri sposa in pieno questa inverosimile versione dei fatti e a favore della tesi dell’estraneità di Mussolini all’uccisione del parlamentare socialista deporrà al processo del 1947 (come spiega il libro di Mauro Canali Il delitto Matteotti, edito dal Mulino). Mussolini all’inizio del 1944 gli fa pubblicare sul «Corriere della Sera» una quindicina di articoli firmati «Giramondo» in cui propone un’apertura al mondo socialista. Ottiene anche clemenza per alcuni prigionieri politici. Ciò che lo accredita tra alcuni capi partigiani, tra i quali quello delle Brigate «Matteotti» Corrado Bonfantini. Roberto Farinacci, Alessandro Pavolini e Ferdinando Mezzasoma si indignano del fatto che Mussolini accrediti un personaggio come Silvestri. Il ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi vorrebbe trarlo in arresto.

A quel punto, scrive Franzinelli, «i rapporti tra il Duce e il giornalista si allentano per quasi un anno». Ma alla vigilia della Liberazione, i contatti riprendono e nel marzo del 1945 si fanno intensi. Silvestri cerca di convincere Mussolini ad «arrendersi ai socialisti». I dirigenti socialisti della Resistenza, Sandro Pertini, Riccardo Lombardi e Lelio Basso, respingono l’offerta. Bonfantini vorrebbe mandare avanti la trattativa, ma i comunisti si oppongono. Anche Mussolini a quel punto lascia cadere ogni tentativo di mediazione. Ma Silvestri, in virtù delle sue entrature tra i partigiani, riesce a salvare la vita del capo della polizia Renzo Montagna, del capo dell’Esercito Rodolfo Graziani, del ministro della Giustizia Piero Pisenti. Gran parte di questa storia verrà raccontata in un libro dello stesso Carlo Silvestri, Mussolini, Graziani e l’antifascismo, edito da Longanesi.
Ma non finisce qui. Nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile 1945, i comunisti trattano Silvestri alla stregua di un collaborazionista, i socialisti no. Però poi, per uscire dall’ambiguità, il quotidiano del Psi, l’«Avanti!», si vede costretto a prendere le distanze da lui e a pubblicare un articolo dal titolo Carlo Silvestri non è dei nostri. Silvestri a quel punto fa valere il suo legame con Bonfantini e l’antica amicizia con Pietro Nenni. Tant’è che alcuni giorni dopo lo stesso giornale pubblica quella che Franzinelli definisce un’«imbarazzata rettifica». L’«Avanti!» riconosce a Silvestri, «in nome delle persecuzioni subite e delle lontane battaglie», il diritto di «parlare da socialista». E Nenni, che pur lo accusa di essere «un pasticcione», gli attribuisce il merito d’essersi messo «alla testa dei primi insorti dando la parola ai mitra».
I rapporti tra Silvestri e il suo mondo di provenienza vanno comunque in frantumi. Nel dopoguerra il giornalista continuerà a difendere il Mussolini della Rsi e prenderà addirittura in considerazione l’ipotesi di candidarsi con il partito neofascista, il Movimento sociale italiano, alle elezioni del 18 aprile 1948. Negli anni successivi, prima di morire nel 1955, sorprendentemente Silvestri riuscirà a conquistare l’amicizia di don Primo Mazzolari e di Alcide De Gasperi.
Ancor più stupefacente è la storia del secondo personaggio preso in considerazione da Franzinelli: Edmondo Cione (1908-1965). Cione finisce nei guai nel 1940 per una lettera scritta a Benedetto Croce, di cui si professa allievo e amico. Si presterà da allora a fare il doppio gioco a danno del filosofo, ottenendo in cambio da Mussolini la liberazione dal carcere. Il momento d’oro giungerà per lui, come per Silvestri, nel 1944, ai tempi della Repubblica sociale italiana. In quell’anno Cione pubblica un libretto anticrociano che gli procura qualche riconoscimento dalla stampa della Rsi. A quel punto Mussolini lo riceverà e dopo quell’incontro Cione si presterà ad una clamorosa montatura: pubblicherà in estate una falsa lettera di Croce in cui l’autore della Storia d’Italia dal 1871 al 1915 accennava ad una sorta di disistima nei confronti di Ivanoe Bonomi (il presidente del Consiglio che aveva preso il posto di Badoglio, dal cui governo Croce si era dimesso il 27 luglio del 1944) e ad un proprio prudente apprezzamento per Mussolini.

La reazione di Croce è immediata e i suoi toni sono sprezzanti. Ammette di conoscere il Cione, ma lo definisce «un giovinastro» presentatogli quando aveva quattordici anni da un insegnante «onestissima persona, costante antifascista». Un imbroglione che, scrive Croce nei Taccuini di guerra 1943-45 (Adelphi), «in modo non so se più malvagio o più stupido è passato armi e bagagli al fascismo e al nazismo». «Mi dicono», scrive ancora Croce, «che abbia anche stampato articoli e un libercolo contro di me». «Sono cose che purtroppo capitano», conclude il filosofo, «e bisogna lasciarle passare». Un periodico di area liberale, «La settimana di Roma», rincara la dose collocando «o vaccariello» (il vitellino) tra i «buffoni da circo» e ricorda che «fu cacciato da casa Croce», qualche anno prima, «quando forse in cuor suo già maturava il proposito di prostituirsi al nemico».
Mussolini invece lo apprezza, lo affida alle cure del ministro della cultura Carlo Alberto Biggini e gli consente di organizzare un movimento «di opposizione anticapitalista» che elegge a suo nemico «il commendatore», cioè «la proprietà», vero e proprio «anticristo», lo «spirito malefico che bisogna distruggere e annientare». Gli viene affidato il compito di scrivere alcuni articoli per «La Stampa» e poi addirittura la direzione di un giornale dal titolo mazziniano «L’Italia del Popolo». Quotidiano che, afferma Franzinelli, ancorché pubblicato a Milano, ha un «sapore partenopeo». Evidente sin dalla titolazione di prima pagina: «Ca nisciuno è fesso» o «Guagliò, facite ’a faccia feroce!»

Difficile, scrive Franzinelli, comprendere come mai Mussolini e Biggini abbiano affidato «a un simile parvenu un compito di grande responsabilità e delicatezza». Oltre tutto, aggiunge, Cione non è un personaggio carismatico. «Pingue, calvo e miope, dall’oratoria cavillosa, dimostra ben più dei suoi trentasei anni»: sul piano politico, «è inconcludente e incline a disquisizioni sofistiche». Ma come avrebbe potuto essere credibile, si domanda Franzinelli, «un movimento fascista-antifascista-nazionalista-populista ispirato dal Duce?»
Eppure Mussolini investe su di lui. Pavolini e Farinacci si schierano anche contro Cione. Lo stesso fa il ministro dell’Interno Paolo Zerbino. Anche i socialisti stavolta diffidano e – assieme ai comunisti – lo trattano da provocatore che cerca di «intorbidire le acque». Troverà, anche lui, udienza da Bonfantini, che però nel dopoguerra così prenderà le distanze: il suo «modo di condursi con me e con i miei collaboratori era quello di un cretino, di un presuntuoso dilettante di cose politiche e di agente provocatore della repubblichetta di Salò». Persino l’esponente più in vista del fascismo milanese, Vincenzo Costa, ha preso atto – in L’ultimo federale. Memorie della guerra civile 1943-45 (il Mulino) – del fatto che i «comitati di liberazione se la ridevano di lui… Sapevano che godeva ore serene con i fascisti altolocati dei ministeri».
Mussolini, quando gli eventi precipitano, confessa a Silvestri di essere deluso da Cione, che si è dimostrato «gravemente inferiore al compito», dando prova di «un’ingenuità che non è più ingenuità perché è dabbenaggine». Il suo movimento, secondo il fondatore del fascismo, avrebbe dovuto essere «una cosa seria» e «non lo è stata». Ancorché deluso, Mussolini accetta però di incontrarlo il 25 aprile nel suo ultimo giorno a Milano, il giorno dell’insurrezione. Così Cione ricorda l’abboccamento: «Ero lì, di fronte a lui, al di là del tavolo, rigido sull’attenti, ma con gli occhi lucidi e le gambe che mi tremavano per la gran passione»; Mussolini «sobbalzò sulla poltrona, mi venne vicino e mi porse la mano, feci per baciargliela, ma egli non me ne lasciò il tempo»; «m’abbracciò e mi baciò sulle guance, mentre io mi sentivo venir meno»; «chiuse la porta e mentre sentivo ancora sulle gote l’impronta delle sue labbra, pensai, tale era il fascino dell’uomo, “e se ora gli antifascisti mi fucilano, ne valeva la pena!”». Nessuna fucilazione. Cione nel dopoguerra se la caverà e si avvicinerà, anche lui, al Msi. Poi all’armatore Achille Lauro e a qualche democristiano napoletano. Ha davvero dell’incredibile che Mussolini abbia trascorso le ultime ore della sua vita in compagnia di personaggi come Silvestri e Cione.