ItaliaOggi, 10 novembre 2020
Roberto Bissoli resta il Rambo della politica
U n dettaglio spiega perché Roberto Bissoli, in arte Rambo, sia stato la più formidabile macchina da voti mai apparsa nella storia della politica veronese, almeno fino all’arrivo sulla scena del leghista Flavio Tosi: a tenerlo a battesimo fu nientemeno che Mike Bongiorno, con il suo Giro Mike e con Anna Oxa. Correva l’anno 1979 e al solo rievocare quell’era geologica gli occhi di Bissoli, un cuor di Leone con ascendente Volpe quanto ad astuzia, luccicano di nostalgia per la signora Cristiana Democrazia, che gli fu madre e maestra non meno della sarta Emma, la mamma vera da cui fu cresciuto con fatica dopo la tragica fine del padre Ferruccio, artificiere ucciso da un’esplosione nel 1948, a soli 29 anni, mentre disinnescava mine a Rivoli per conto della ditta Testi. In quell’estate del 1979, Bissoli, ragioniere nato nel 1947 a Sandrà di Castelnuovo del Garda ma dal 1969 legato a Isola della Scala, dov’è stato sindaco, per la prima Festa intercomunale dell’Amicizia riuscì a radunare nella Corte San Bernardino di Trevenzuolo la bellezza di 70.000 spettatori, sicuramente attirati più dal sempiterno Mike e dall’album Oxanna della cantante di origini albanesi che non dai big che si alternarono sul palco, Flaminio Piccoli, Angelo Tomelleri, Gabriele Sboarina, Carlo Bernini, Alberto Rossi, «perfino uno della Cdu tedesca, con i baffi, non mi chieda il nome». E l’anno dopo, sempre d’estate, concesse il bis nella Corte Artegiani della sua Isola Scala, con Loredana Bertè ed Enrico Beruschi, il cabarettista che sarebbe presto diventato una delle vedette del Drive In di Antonio Ricci su Italia 1. «Altri 30.000 in platea. Fu da lì che nacque l’idea di ampliare la Fiera del riso», si congratula con sé stesso Bissoli.
Che la Dc scaligera fosse sangue del suo sangue non è un’esagerazione. «Io arrivo al partito grazie all’Avis di Isola della Scala, che contava 400 iscritti», rievoca. «Per promuovere le donazioni organizzavo marce non competitive di successo. Così il democristiano Piero Gruppo, padre di Michele, l’attuale vicesindaco, mi chiese di cimentarmi anche nella Festa dell’Amicizia. Accettai volentieri e m’iscrissi al partito».
Quello che gli sarebbe accaduto in seguito, dopo la stagione di Tangentopoli per intenderci, Bissoli lo sintetizza con filosofia coprologica: «Normalmente risulto antipatico solo a chi non mi conosce. Dal 1993 in poi ho cercato di difendermi deglutendo tutti i giorni un cucchiaino di quella roba color marrone, in modo da non trovarmi impreparato quando cominciarono a tirarmene addosso a badilate: anche se è tanta, il gusto non cambia. Prima non l’avevo mai assaggiata, semmai la facevo mangiare agli altri».
Con queste premesse, cosa volete che gl’importi di essere da poco tornato sotto il tiro dei magistrati per presunti illeciti connessi al fallimento della cooperativa Stella di Buttapietra, che hanno comportato il rinvio a giudizio con l’imputazione di bancarotta fraudolenta e semplice: «Avrei aggravato il dissesto della società astenendomi dal sollecitare la dichiarazione di fallimento e distratto 14.553 euro, capirai. Aspetto sereno che la giustizia faccia il suo corso. Una cosa è certa: se avessi accumulato tesori grazie alla politica, non sarei ancora qui che lavoro alla bella età di 73 anni, le pare?».
«Qui» è l’ufficio della Work and logistics, una Srl con sede in via del Perlar. L’ha messa in piedi nel 2016 con tre soci che sono anche suoi amici. Bissoli ne è il direttore amministrativo. Nello studio ci sono un comò e un tavolino antichi, una scrivania con il ripiano di cristallo, una ciotola di sabbia zeppa di cicche: «Per 20 anni non ho fumato, ho ripreso perché non avevo altro da fare». Alle pareti, un Cristo straziato con i polsi stretti da una fune («l’ho trovato a Budapest») e foto che lo ritraggono con Papa Wojtyla, Giulio Andreotti e altri leader, anche se la più grande è quella di Totò che dal palco arringa la folla al grido di «Vota Antonio La Trippa».
Diciamo che qui Bissoli sta sfruttando l’esperienza maturata da presidente dei Magazzini generali, ricostruiti ex novo nel giro di 12 mesi durante il suo mandato, e senza revisioni di prezzi rispetto all’appalto dei lavori. «Imparai a darmi da fare prim’ancora di crescere. Avevo 9 mesi quando mio padre saltò in aria nella polveriera di Rivoli. Era partito ventenne come volontario per l’Africa orientale italiana. Dopo la disfatta di El Alamein, fu catturato dagli inglesi e mandato in un campo di concentramento in Australia. Tornò a casa solo nel 1946. Tempo due anni ed era già morto».
È figlio unico?
Ho un fratello minore, nato nel 1960, dopo che mia madre si era risposata.
E lei ha figli?
Cinque. Tre dal primo matrimonio, nati uno dietro l’altro, fra 1978 e il 1980. Dal 2006 sono unito civilmente a Daniela. Cominciammo a convivere dopo la separazione da mia moglie. Era già madre e nel 1993 mi ha dato una figlia.
Di che campava prima di fondare la Work and logistics?
Ho la pensione da ex dipendente statale, che percepisco da quando smisi di lavorare dopo 19 anni, 6 mesi e 1 giorno.
Un baby pensionato.
Un fruitore della legge voluta dal governo Rumor nel 1973. Avrei potuto chiedere l’aspettativa per cariche pubbliche elettive. Preferii la pensione.
Che lavoro faceva?
Ho vissuto l’intera epopea delle tasse in Italia. Cominciai nel 1961 con il dazio comunale e le imposte di consumo. Fui tra i primi a entrare negli uffici delle imposte dirette di Verona, in lungadige Capuleti, dopo aver girovagato mezzo Veneto: Isola della Scala, Loreo e Rosolina, Bussolengo e Pastrengo, Mansuè e Portobuffolé. Poi passai all’ufficio Iva dell’Agenzia delle entrate e chiusi nel 1981 all’Intendenza di finanza.
Quindi ha sempre pagato le tasse volentieri.
Come i buoni cristiani. Vado alla messa vespertina festiva dai frati di San Bernardino.
Chi la arruolò nella Dc?
Il segretario provinciale dell’epoca, Maurizio Pulica. Avevo appena partecipato alla campagna elettorale per mandare alla Camera il mio compaesano Alberto Rossi.
Elezioni del giugno 1979.
Benché fosse un volto nuovo, Rossi raccolse 46.402 preferenze e in provincia si piazzò terzo alle spalle dei collaudatissimi Gianni Fontana ed Enzo Erminero. Passarono anche Gianmario Pellizzari e Giuseppe Ceni e i senatori Guido Gonella e Luciano Dal Falco.
Così l’onorevole Rossi la prese al suo servizio.
Non sono mai stato un dipendente di Rossi. Divenni il capo della sua segreteria, che aveva sede in via Emilei 17.
E otto anni dopo era già segretario provinciale della Dc.
Evento naturale. Francesco Perina, doroteo come me, era diventato senatore e le regole interne impedivano che rimanesse alla guida del partito.
Ma perché la Democrazia cristiana veniva chiamata la Barlòca?
Fin dalla notte dei tempi. L’origine del nome mi è ignota.
Secondo il linguista Giovanni Rapelli, derivava da berlòca, il rancio garantito ai soldati piemontesi che nel 1866 occuparono Verona divenuta italiana.
Beh, non eravamo proprio alla fame. La sede del partito in via Garibaldi era di nostra proprietà. L’aveva acquistata l’ex sindaco Renato Gozzi, credo. Fui io a trattarne la vendita all’avvocato Mario Morgante quando la Dc venne liquidata.
Un ex segretario della Dc mi ha raccontato che solo per spedire una circolare agli iscritti servivano 30 milioni di lire.
Si è tenuto stretto. Nel 1988 un francobollo costava 650 lire. Di tesserati ne avevamo 70.000. Faccia lei i conti.
Sono 45 milioni e mezzo.
Di spese postali. Ci aggiunga il foglio, la busta e i costi di stampa. Il problema era tutto lì. Serviva il nero per qualunque uscita. Solo le anime belle potevano credere che bastasse il finanziamento pubblico dei partiti, poi abolito nel 2013.
Nacquero così i suoi guai per Tangentopoli?
Nacquero sulla base del famoso teorema «Non poteva non sapere». Savèa anca massa, se l’è par quelo. Il segretario sapeva tutto.
Lei raccontò che i maggiorenti del partito le dissero, nell’affidarle l’incarico: «Questi sono i conti da pagare. Datti da fare».
Era la prassi. Non c’era alcun sistema. I donatori nel 99,9 per cento dei casi si presentavano in via Garibaldi spontaneamente. Ripeto: il problema è che tutto veniva fatto in nero.
Trovò molti conti in sospeso?
Il partito non spendeva solo per le circolari postali. Pagava le campagne elettorali, i manifesti, i convegni, le cene.
Ho chiesto all’ex procuratore Papalia se fosse vero che alcuni dc si salvarono dalla galera solo perché lo aiutarono a inchiodare i loro leader di riferimento. Mi ha risposto: «Non andarono in prigione perché non c’era né pericolo di fuga, né d’inquinamento delle prove, né di reiterazione dei reati, avendo ammesso tutte le loro responsabilità e raccontato anche più di ciò che gli veniva contestato». Parlava di lei?
Non credo. Però le cose stavano come le ha detto Papalia.
Si narra che lei, dopo essere stato interrogato dal procuratore, ai dc che le chiedevano come fosse andata rispose: «Sarìa come voler fermar un treno col cul».
Non mi ricordo di aver mai pronunciato questa frase. Però è plausibile, mi ci riconosco.
Perché definì Carlo Olivieri, portaborse del ministro Fontana, «un vaselinatore da retrovie»? Questa è nero su bianco, riportata dall’Arena nel 1994.
Guardi, anche se i nostri nomi sono sempre stati accomunati, io non avevo rapporti con Olivieri. Avrò pranzato con lui cinque volte in tutta la mia vita. A molti ha fatto comodo cavarsela così: la colpa è di Olivieri e Bissoli, pentiamoci dei loro peccati e non parliamone più.
A chi andavano le tangenti?
Ogni partito, Dc, Pci, Psi, Psdi, Pli, Pri, persino Alleanza nazionale, aveva la sua percentuale. Facciamo un caso concreto: la costruzione di un capannone in Fiera. Tutti potevano contare su un’impresa amica coinvolta nei lavori.
Negli atti parlamentari si legge che per la terza corsia della Serenissima i costruttori versarono a Severino Citaristi e Vincenzo Balzamo, segretari amministrativi della Dc e del Psi, una quota pari al 3 per cento dell’appalto, come risulta dalle dichiarazioni rese da Olivieri e da lei.
Qualcuno ha dimenticato che piazza del Gesù, dove c’era la Dc, dista 90 metri dalle Botteghe Oscure, la sede del Pci.
È vero che a causa dell’inchiesta suo figlio dovette smettere di giocare a calcio perché in campo lo chiamavano Tangentopoli?
Smise perché come portiere della Scaligera l’era stràsso. Forse c’entrava anche l’invidia, sentimento assai difficile da gestire. Qualsiasi cosa tu faccia, l’invidioso resta della sua idea, si scava la fossa da solo e infine ci casca dentro.
Sua figlia fu costretta a lasciare le lezioni di danza.
La iscrissi a una scuola privata.
Sua madre ebbe un infarto.
Morì di questo. Sa, non era mica facile vivere in quei momenti là.
È cambiato qualcosa da allora?
Tangentopoli fu un processo politico, non la ricerca assoluta della verità. L’unica differenza fra prima del 1994 e i tempi attuali è che ieri chiedevano il contributo per il partito e oggi lo cercano per loro.
Se tornasse indietro, rifarebbe tutto quello che ha fatto?
Non rifarei il segretario provinciale della Dc. Come sindaco di Isola della Scala e in tutte le altre cariche pubbliche, problemi non ne ho mai avuti, nonostante quelli arrivati dopo di me, i leghisti in particolare, abbiano rovistato in tutti gli armadi nella speranza di trovarvi qualcosa di storto relativo alla mia gestione.
Presidente dei Magazzini generali, consigliere della Serenissima e dell’Autobrennero, consigliere e poi assessore regionale. Ma perché cumulava così tanti incarichi, spesso contemporaneamente?
Nelle autostrade subentrai a Ernesto Mariotto, che era anche presidente dell’Aiscat e dell’Unione cooperative. Il quale mi disse: «Roberto, te làsso el posto parché ti no te se quante cariche g’ò mi!». Allora te le davano per capacità, non te le tiravano nella schiena. E Mariotto era bravissimo. Vorrei ricordarle che fui eletto in Regione senza stampare neppure un manifesto, solo con lo slogan «Abbiamo avuto molte occasioni per darci la mano, adesso ho bisogno di una mano».
Concreto ed efficace. Il soprannome Rambo chi glielo diede?
Mario Zwirner sul Nuovo Veronese e a Telenuovo. Ero piuttosto energico, a quel tempo.
Una mietitrebbia elettorale.
Nel 1992, da solo, portai Gabriella Zanferrari in Parlamento con 31.995 preferenze, stracciando Wilmo Ferrari, Alberto Rossi e Gastone Savio. E persino Amedeo Zampieri, braccio destro di Antonio Bisaglia.
Chi sono stati i migliori sindaci di Verona?
Giovanni Uberti, Renato Gozzi, Carlo Delaini, Gabriele Sboarina e Flavio Tosi.
Tosi tornerà a Palazzo Barbieri?
Sì. Ha un vantaggio: è disoccupato, ma non defunto. E quelli venuti dopo di lui hanno commesso errori clamorosi. Penso all’Arsenale, all’archiviazione del tunnel delle Torricelle, all’incredibile progetto della filovia prima avviato e poi sospeso, all’affare dell’Ikea sfumato. Non ci si mette contro il mondo solo per fare un dispetto a chi ti ha preceduto, bocciando tutte le sue iniziative. In passato non era così. Le idee buone venivano portate avanti e ultimate.
Ma qualcosa avrà pur sbagliato anche Tosi.
Ha scordato il consiglio di Catullo: «Non combattere contro due nemici contemporaneamente».
Dell’attuale sindaco Federico Sboarina che mi dice?
Conosco il cognome. So poco di lui, e questo per l’interessato magari è un complimento. Sento in giro che gode di scarso consenso. Ha una bella squadra.
A una persona che a Parigi voleva portarla a visitare Notre-Dame, lei rispose: «È inutile. Dopo averne vista una, queste chiese gotiche sono tutte uguali». Vale anche per i partiti?
Adesso sì. Allora no. Comunque questa persona ricorda male: non eravamo a Parigi, bensì a Monaco di Baviera.
Rimpiange la Dc?
Eccome. Per il metodo di formazione culturale e per le gerarchie chiare che esprimeva. Non facevi il sindaco se non eri stato assessore. Non facevi il parlamentare se non eri stato consigliere provinciale o regionale. Non facevi il sottosegretario se non eri stato parlamentare per due mandati. Non facevi il ministro se non eri stato sottosegretario. E per formazione culturale intendo la scuola della Camilluccia a Roma e il Centro Toniolo di don Gino Oliosi a Verona. Li guardi adesso: dilettanti allo sbaraglio, in tutti i partiti.
Di recente l’hanno sentita affermare: «Non ho mai smesso di fare politica». Chi gliela fa fare?
La politica è un modo di comportarsi, ma non per raggiungere una poltrona. È tolleranza nei confronti dei tuoi avversari, è dialogo esasperato per giungere a un accordo, è mediazione continua fra l’esigenza A e l’esigenza B, è ascolto dei problemi della gente, è capacità di risolverli. Non è il partitismo. Essere democristiani non significava iscriversi alla Dc. Era un modo di pensare.
Sente di dover chiedere scusa a qualcuno?
Di cosa?
Tipica risposta da Rambo.
Qualche ingrato dovrebbe semmai chiedere scusa a me. Tuttavia mi rendo conto che dare giudizi su una persona senza conoscerla è questione che attiene più alla stupidità che all’ignoranza. La seconda si può sconfiggere: basta informarsi. Ma la prima è una malattia incurabile.
(L’Arena)