La Stampa, 9 novembre 2020
L’odissea di Anna, 26 ore in ambulanza
Dopo dieci ore trascorse chiusa nell’ambulanza, ostaggio di una sanità al collasso, Anna, 78 anni, vedova, tampone positivo al Covid, ha piegato un tubicino da deflussore, iniziando a fare dei nodi. Uno, due e tre e poi quattro e cinque…tanti quanti sono i misteri del rosario. Una fatica intrecciare la cannula con le mani incerte che tremavano dalla febbre alta. Ma lei imperterrita non si è fermata fino a quando ha iniziato a pregare, lì seduta sulla barella, la schiena mal sorretta da una borsa, i piedi gonfi. Erano le 18.30 di venerdì, dieci avemaria, un padre nostro. Dieci ore prima, alle 8.36, il figlio convivente, anche lui affetto da Covid, aveva chiamato il 118 di Angri, in provincia di Salerno, perché mamma respirava sempre più a fatica, l’ossigenazione del sangue era precipitata da 97 a 79, facendo scattare il pericolo. L’ambulanza aveva portato la signora fino al piazzale dell’ospedale di Scafati, davanti al pronto soccorso, dove però – causa penuria dei letti - è rigorosamente vietato entrare. E lì tutto si è fermato: le sirene, l’urgenza, l’assistenza ospedaliera. Tutto sospeso ma non la paura di morire. Quando la malattia si sviluppa nella sua brutalità, la febbre e i sintomi aumentano, l’angoscia ti bracca e non ti molla più. Dieci avemaria, un padre nostro.
Tutti in coda, quindi, un serpentone macabro di veicoli e di disperati, ambulanza dopo ambulanza, dramma dopo dramma, una sospensione estenuante tra vita e morte, in attesa di un letto, lasciato libero da un guarito dimesso o da un altro finito al camposanto, a questo punto, poco importa. Dieci avemaria, un padre nostro. L’ambulanza viene così trasformata in camera di degenza, una costola improvvisata dell’ospedale adiacente, che pur essendo vicino ma non avendo appunto posti disponibili è come se non ci fosse, un miraggio, un’illusione. Ecco che il disordine si materializza, lo spiazzo si trasforma, si camperizza. Le attese durano ore infinite, l’ambulanza prima di quella di Anna ha già trascorso lì la prima notte, essendo arrivata alla 17 di giovedì. Ogni dodici ore la squadra dei sanitari smonta e arriva quella nuova. Qualcuno porta da mangiare. Le bottigliette d’acqua diventano preziose. Anche la disperazione diventa routinaria con il rischio di morire lì a due passi dal nosocomio, dalla terapia intensiva, dalla vita. Le scene surreali si susseguono e fanno invidia ai film di Bunuel.
Anna in quell’ambulanza è rimasta chiusa in tutto addirittura 26 ore, un interno giorno, un’intera notte, prima di essere accettata al triage del pronto soccorso. Solo alle 11.16 di sabato si è aperto uno spiraglio. L’ospedale l’ha presa in carico e ha liberato l’ambulanza, pronta, dopo la sanificazione, a salvare finalmente nuove vite. A tornare disponibile, dopo esser stata anche lei sequestrata dalla malasanità imperante. Del resto è quello l’unico ospedale con pronto soccorso che in zona accetta i pazienti Covid e, quindi, Anna da malata non poteva essere accolta da nessun’altra parte. Per fortuna c’erano i ragazzi della pubblica assistenza Castello di Angri, a somministrare sul mezzo la terapia che la vedova assumeva già a casa, cortisone, tachipirina e ossigeno, tanto ossigeno da far fuori cinque, quasi sei bombole, in quella via crucis. Ragazzi che prendono una miseria, ecco 3 euro all’ora l’autista, ecco 5 e 50 centesimi all’infermiera: soldi che fanno capire quanta passione li animi per esporsi a tanti rischi. Dieci avemaria, un padre nostro. E per fortuna che uno dei figli della vedova portava da mangiare, brodino a pranzo, fesa di tacchino con formaggio spalmabile a cena.
La storia di Anna purtroppo non rappresenta un’eccezione. «Mediamente l’attesa è di 7-12 ore – spiega Sabato Muto, responsabile dei mezzi della pubblica assistenza – ma ci sono anche casi di 22-24 ore e persino 26 ore, come la signora Anna. Certo, non è ancora morto nessuno in ambulanza, ma la paura è tanta. Immaginate anche il personale come vive, per 12 ore con dispositivi protettivi indossati, senza mangiare, senza poter abbandonare ovviamente il paziente. Noi abbiamo un’ambulanza per ogni paese ma ci mancano risorse. Ad esempio, i mezzi non sono muniti di barella di biocontenimento, indispensabile per il trasporto di pazienti Covid e aiutare chi sta male diventa difficile». Il rischio che si crei il caos è sempre maggiore: «L’ast dovrebbe riorganizzare il 118 - prosegue il responsabile - perché interventi per ictus o infarto con codice rosso finiscono in lista d’attesa. Anche le centrali operativi sono in tilt: per mettersi in contatto ora ci vogliono 15-20 minuti perché gli operatori non riescono a stare dietro a tutte le richieste». E infatti senza di loro, Anna, con ogni probabilità, purtroppo, non ci sarebbe più.