Corriere della Sera, 9 novembre 2020
Narrazione e altre parole da bandire
Nella bella rubrica di Rai Radio3, «La lingua batte», condotta ogni domenica da Paolo Di Paolo, ieri Francesco De Gregori diceva che alcune parole sarebbero da bandire per usura e insignificanza. Oltre all’aggettivo «mitico», che furoreggiava fino a qualche anno fa (e a cui De Gregori ha dedicato una canzone dove veniva derisa anche la «contaminazione»), consigliava di bandire la «problematica». Come dargli torto: affrontare una problematica è decisamente meno serio che affrontare un problema. Dimenticava la «narrazione» (che tanto piaceva a Vendola). La narrazione egemonica delle proteste americane, la narrazione catastrofista del virus, la narrazione coreana sul Covid, la narrazione ambientalista della pandemia, la narrazione leghista dell’immigrazione, la narrazione del governo sull’economica, la narrazione tendenziosa sulla chiusura delle scuole... L’altra mattina, sempre in radio, un filosofo e psicologo accademico, a proposito dell’Unione europea, ha ripetuto a mitraglia: «A noi piace avere delle narrazioni che siano consequenziali, e una narrazione coerente basata su certi valori è fondamentale perché noi siamo costruiti per avere delle narrazioni...». Chiaro? Più o meno. Pare di intuire che ci nutriamo di pane e narrazione e anzi ogni novità, fenomeno, inquietudine, grattacapo volendo si può trasformare in una narrazione: ma nell’uso e abuso della parola «narrazione» c’è forse un tratto che ci può aiutare a capire questi nostri anni. Tradizionalmente, come ci ha insegnato Walter Benjamin, grande teorico della narrazione, si trattava di un racconto che aveva a che fare con l’esperienza collettiva e condivisa fino a sfiorare l’epos. Oggi, per narrazione si intende semplicemente un punto di vista tra i tanti, una «frantumaglia» di opinioni individuali, sicché ciascuno ha la sua piccola narrazione su tutto. Cioè ciascuno se la canta e se la suona. E più spesso, purtroppo, ce la canta e ce la suona.