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 2020  novembre 08 Domenica calendario

Intervista a Lucia Ronchetti

La storia di Lucia Ronchetti, compositrice romana appena nominata alla direzione della Biennale Musica di Venezia per il prossimo quadriennio (2021-2024), prima donna a ricoprire questo ruolo, è una storia di talento, determinazione, tenacia, sacrifici, studio, amore incondizionato per la musica. Ma è anche una storia che, nella sua parte iniziale almeno, assomiglia a una favola antica. «Durante la mia infanzia – dice Ronchetti – vivevo in un ambiente povero nella periferia sud di Roma e i miei vicini erano dei poverissimi e anzianissimi signori senza figli, musicisti che avevano fallito nella loro carriera e che conservavano in casa vecchi strumenti e partiture. Lui era Mario Bevilacqua, violinista e compositore d’opera diventato riparatore di orologi una volta caduto in miseria; sua moglie Hélène Hahn, che chiamavo Leny, era una cantante svizzera fuggita dalla sua ricca famiglia per seguire il violinista italiano. Avevo solo tre anni ma, appena potevo, scappavo da casa per stare con loro, che mi hanno insegnato la musica nel modo più folle e divertente che si potesse concepire. C’era un vecchio clavicembalo appoggiato al muro in verticale con tutte le corde rotte, era diventato il mio rifugio segreto. I miei capelli lunghi si intrecciavano sempre con le corde dello strumento e loro passavano ore a staccarmeli senza strapparli».
Anni dopo, quando Ronchetti da adolescente ascoltò in radio Aura (1972), uno dei lavori orchestrali storici di Bruno Maderna (1920-1973), non ebbe più dubbi: voleva diventare compositrice anche lei. «Non ero sicura che la mia preparazione fosse già abbastanza buona da poter entrare in conservatorio. Non solo lo era, ma si dimostrò più radicata nella modernità di quella che avrei avuto da lezioni private tradizionali». Ronchetti ora è una delle voci più importanti e autorevoli nel mondo della musica contemporanea, in particolare per le opere che le sono commissionate dai maggiori teatri europei, a Francoforte, Berlino, Colonia, Parigi... Per il nuovo incarico ha già ideato a grandi linee i programmi per il quadriennio: Choruses, sulle drammaturgie vocali (2021); Out of Stage, sulle nuove forme di teatro musicale (2022); Micro-Music, sulle trasformazioni del suono microfonato, dai primi esperimenti alla musica digitale (2023); Absolute Music, sull’estetica di una musica priva di riferimenti extra-musicali (2024).

In così poco tempo ha già deciso i programmi per i prossimi anni?
«È già da un po’ che mi preparavo all’eventualità di poter diventare il nuovo direttore artistico della Biennale Musica. Dopo tanti anni all’estero ho pensato di avere maturato l’esperienza per dare eventualmente il mio contributo e ho preparato i progetti di festival».
Come cambierà il suo lavoro di compositrice, ora che è direttrice artistica?
«Voglio mettere in secondo piano la mia figura di compositrice attiva e desidero vietare alle persone invitate di eseguire o di relazionarsi con la mia musica fino a fine mandato. La mia direzione artistica sarà una direzione da compositore, cosa che può dare una grande gratificazione».
Torna in Italia dopo tanto tempo.
«Da marzo sono a Roma, ma penso già a Venezia, la culla del contrappunto vocale antico. Nella Biblioteca Marciana ci sono i manoscritti di tutta la produzione operistica del Seicento. Avrò l’occasione non solo di fare la direttrice ma anche di studiare e nutrirmi di queste meravigliose collezioni, come hanno fatto i compositori veneziani, Gian Francesco Malipiero, Bruno Maderna, Luigi Nono...».
Attualmente sta lavorando molto, anche a più opere insieme...
«Non potrei vivere senza sapere che tutti i giorni c’è una pagina bianca che mi aspetta. Capita che a volte si sovrappongano i progetti. Ho appena concluso la prima versione di un’opera e ho già un’altra commissione. Nel frattempo sto discutendo della mia futura opera corale».
Quella per le opere corali è una passione.
«Sono il genere nel quale riesco a fare qualcosa di originale e importante per il futuro. Le concepisco come un progetto teatrale per una massa di voci senza strumenti, voci che sono sia di professionisti sia di dilettanti, raccolte in giro».
Stava accennando alla prossima…
«Sarà su Giacomo Leopardi e la farò per la Filarmonica di Colonia. L’opera rappresenta un giovane solitario, attraverso il quale posso parlare della solitudine epidemica dei giovani di oggi e dei giovanissimi discriminati a scuola, isolati socialmente. Ne parlo attraverso le parole dello Zibaldone».
I testi li sceglie lei?
(ride) «Dirò di più. Non avendo trovato in Italia la possibilità di realizzare questo progetto, lo farò in tedesco. E siccome non esiste una traduzione importante dello Zibaldone, ho coinvolto un drammaturgo straordinario, Konrad Kuhn, con il quale ho collaborato per il mio Inferno di Dante. Mi aiuterà lui».
Parliamo di pubblico.
«In Germania ho a che fare soprattutto con il pubblico del teatro d’opera, un pubblico tanto detestato, per me invece straordinario. Quando scrivo per un pubblico che ha una incredibile passione dell’ascolto e conoscenza del repertorio, ci vuole grande impegno. Mi auguro che in Italia possa cambiare tutto per quanto riguarda la mancanza di un’educazione musicale adeguata. In Germania, dove la figura del compositore è più reale e parte attiva della società, mi sento un’autrice vera che può essere giudicata».
Lei lavora tanto con la voce. Perché?
«La voce è un organo corporale. Quando qualcuno canta, compie un atto naturale e tutto il corpo partecipa. Mi affascina la primordialità della voce, il fatto che si relazioni con il linguaggio, a sua volta organismo vivente che continua a evolvere e cambiare. La voce umana è legata a suoni ancestrali, animali, incontrollabili, ma è anche connessa alla verbalizzazione del nostro pensiero».
Tre esempi che metterebbe al vertice di una sua classifica di musica vocale?
«È sempre impressionante ascoltare Pomponio Nenna (1556-1608), un madrigalista che è stato maestro di Gesualdo da Venosa. Poi lo stesso Gesualdo (1566-1613), col quinto Libro di madrigali... Ma per me la bibbia musicale è il Giasone, dramma per musica (1649) di Francesco Cavalli (1602-1676): è la partitura più importante per voce mai scritta. Ci sono parti corali che sembrano musica d’oggi. Alcune parti che ho trascritto nella mia Lezioni di tenebra (2010) sono diamanti neri della musica vocale e c’è una straordinaria aria del sonno sulla quale ho lavorato a lungo. Penso che nella musica barocca, nelle arie del sonno in particolare, ci sia una preveggenza di quello che ha fatto Arvo Pärt, un rallentamento del timing, della concezione del tempo, un abbassamento della tensione che genera armonie inaudite».
Anche Salvatore Sciarrino con il quale lei ha studiato, in più lavori ha fatto riferimento a Gesualdo.
«Ho studiato con Sciarrino e penso che senza il suo Infinito nero del 1997-1998 non ci sarebbe la musica operistica contemporanea come la conosciamo».
Stiamo sui maestri. Lei ha studiato con il padre della musica spettrale, Gérard Grisey (1946-1998). Qual è stato il suo insegnamento più importante?
«È stato sempre durissimo con me. Ho collezionato solo critiche serrate e risposte negative. Non mi ha mai gratificata in quattro anni. Così rigido e severo da farmi rigenerare musicalmente con una nuova profondità che per me era imprevista. Gli devo moltissimo, perché dopo di lui, tutte le persone mi hanno sempre detto “sì”, e questo non aiuta...».