La Lettura, 8 novembre 2020
L’officina di Zanzotto continua la produzione
Riflettendo sul baule nel quale Pessoa aveva stipato 27.543 testi autografi di cui nessuno sapeva nulla e che fu aperto nel 1943, Andrea Zanzotto parlò di «civetteria di uno che si è voluto quasi tutto postumo». Era una piccola provocazione giocata sulle sconnessioni tra il tempo della poesia, che «dev’essere inattuale», e il tempo del mondo. Come se l’autore portoghese padre degli «eteronimi», divenuto un caso letterario diversi anni dopo la scomparsa, si fosse proposto di inviare messaggi nel futuro grazie agli studiosi che avrebbero continuato a pescare novità in quel cofano.
Un destino che non ha toccato Zanzotto. Infatti, nonostante i martellanti malanni psichici e fisici, il grande poeta ha pubblicato tantissimo, in vita (solo il Meridiano a lui dedicato, peraltro largamente incompleto, ha 1.800 pagine). Eppure molto resta ancora da scoprire, di ciò che ha scritto. L’occasione per scavare nel vasto giacimento dei suoi inediti comincia ora, mentre si apre il centenario della nascita, il 2021, che coinciderà con il decennale della morte.
A parte il «prologo» di domenica 15 novembre per BookCity, Mondadori ha in programma per i prossimi mesi un paio di volumi. Un Quaderno di traduzioni, curato da Giuseppe Sandrini, che alza il velo sull’interesse di Zanzotto per il «melograno di lingue» europee. Ci sono versioni dal portoghese (Pessoa), dal tedesco (Hegel e Hölderlin), dallo spagnolo (Salinas, Guillèn), dal francese (Rimbaud, Valéry, Bataille, Michaux), dal latino (Virgilio, Orazio) e un curioso incrocio dal friulano al francese (con i cori dei Turcs tal Friùl di Pasolini), senza calcolare l’esperienza di poesia bilingue inglese/italiano degli haiku. Testi che si proponeva di riunire fin dagli anni Ottanta, sulla base di un progetto editoriale di «poeti che traducono poeti» mai andato in porto.
Uscirà poi anche una raccolta di Poesie disperse, curata da Francesco Carbognin, pubblicate in luoghi disparati ma non nelle raccolte zanzottiane canoniche, preziose per colmare qualche passo mancante nell’opera di quello che Gianfranco Contini definì «il migliore fra i poeti nati nel Novecento». Giudizio mutuato da «le Monde», per il quale restava «le plus moderne, plus savant, plus émouvant poète italien d’aujourd’hui».
Ancora, tra le carte custodite nello studio della sua casa di Pieve di Soligo e nel Centro manoscritti dell’Università di Pavia, presieduto da Gianfranca Lavezzi, c’è un’infinità di materiali da riordinare e, sperabilmente, mandare alle stampe. Come il Cahier di versi in francese scritti quand’era emigrato a Villars sur Ollon, nel Vaud, sui monti svizzeri sopra Losanna, nell’immediato dopoguerra. Ma anche diverse prime stesure ed esperimenti poetici – magari «sognati in dormiveglia», come annota lo stesso poeta – di cui diamo in questa pagina un assaggio con una prova di rime: «Ascia, grascia, ambascia... odoro, adoro, imploro».
Documenti da legare a materiali genetici della sua poesia e ipotesi di lavoro per il celebre Ipersonetto, cuore della raccolta Il Galateo in bosco. Era una sorta di «sonetto al quadrato», formato da 14 sonetti più 2, il messaggio dei quali, spiegò Zanzotto stesso, «è la forma». Con quest’indicazione comprendiamo che, incrociando metrica e geometria, il poeta immaginava la struttura del testo – ecco l’altro curioso appunto qua riprodotto – attraverso un disegno che sembra alludere al quadrato magico della Melancholia di Dürer, dove i numeri sono disposti per dare a ogni riga, comunque la si scorra, una somma sempre uguale: 34. Per Zanzotto, da quanto si osserva a una lettura sia in orizzontale sia in verticale, lo schema doveva far corrispondere a ogni verso di sonetto un sonetto, dunque 3 + 4 + 4 + 3, preceduti da una premessa e seguiti da una conclusione, con le terzine a incorniciare le quartine. Alchimie compositive nelle quali potrebbe risultare difficile addentrarsi senza questo tipo di supporti, fondamentali per capire il sofisticato lavoro del poeta.
Non basta. C’è di tutto, nella sua officina letteraria. Oltre alla biblioteca personale, ci sono abbozzi di saggi critici e prose narrative, pagine di diario lungo vari decenni, interventi audiovisivi e soprattutto gli epistolari con alcune fra le maggiori personalità della cultura del secolo scorso. Un imponente carteggio (parliamo di oltre seimila lettere) che coinvolge Ungaretti, Montale, Calvino, Fortini, Giudici, Solmi, Anceschi, Contini e altri. Su queste corrispondenze, svetta per mole il rapporto protrattosi dal 1948 all’83 tra Zanzotto e Vittorio Sereni, altro grande poeta novecentesco, che fu l’incontro tra due intelligenze simpatetiche.
Una corrispondenza che alza il velo anche sul percorso di entrambi. All’inizio Zanzotto, dalle prealpi trevigiane, informa Sereni delle angustie create dai problemi economici della famiglia, mentre, consapevole del proprio talento, gli trasferisce l’ansia di costruire un dialogo con i circoli letterari di Milano e con l’establishment editoriale.
Andrebbero infine esplorati i carteggi sul suo rapporto con il «Corriere della Sera», con il quale cominciò presto a collaborare, disertando per un periodo solo alla fine degli anni Settanta, quando percepì in anticipo l’ombra di certe forze (la P2) che miravano a colonizzare il giornale. La lettera indirizzata a chi scrive, e che riproduciamo, è del 9 settembre 1981 e allude appunto al suo ritorno in via Solferino, alla cui direzione si è nel frattempo insediato Alberto Cavallari. E qui siamo di fronte a un triangolo d’amicizie. È infatti l’amico Claudio Magris a girargli l’invito a rientrare formulato dall’allora vicedirettore Gaspare Barbiellini Amidei. Ed è l’amico ministro del Partito repubblicano, Bruno Visentini, membro della Resistenza assieme a Zanzotto, l’uomo nel quale il poeta confida per un riordino dell’azionariato (che all’epoca sperava potesse essere «diffuso») in grado di permettere al «Corriere» un’uscita dalla crisi. Come avviene.