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 2020  novembre 08 Domenica calendario

22QQAFA10Intervista a Zadie Smith

Con Denti bianchi, nel 1999, a 23 anni ha raccontato per la prima volta le tensioni dei figli degli immigrati in Inghilterra. Ma guai a considerarla la voce di alcunché. Affilata, precisa con le parole, a volte sarcastica, Zadie Smith, britannica di madre giamaicana, non si sente simbolo di niente: «Nessuno, nelle mie varie comunità che si sovrappongono, mi considererebbe una sua voce. Tutte sono più che capaci di parlare da sole. E poi, qual è la mia comunità? Le persone della diaspora africana? I neri britannici? Le donne nere britanniche?» dice a «la Lettura» da Londra, dove è tornata a vivere dopo molti anni negli Usa. In Italia quest’anno è uscito Grand Union (Mondadori), il suo primo libro di racconti in cui, attraverso una varietà di situazioni e registri, dà conto della complessità del mondo di oggi; e una smilza raccolta di 6 brevi saggi, Questa strana e incontenibile stagione (Sur), scritti durante i primi mesi della pandemia in cui parla di corpo, sofferenza, privilegio sociale e, naturalmente, letteratura. Alla domanda che cosa sia lei l’identità risponde alla Hemingway: «Una festa mobile».
Mettiamola così: è nata a Londra da padre inglese e madre giamaicana. Ha vissuto a New York per un lungo periodo, un anno a Roma. Dov’è casa?
«Dove posso scrivere, avere i miei cari vicino, un posto dove correre o nuotare, un caffè con un buon espresso al mattino e buoni Martini la sera».

Il mondo contemporaneo sembra essere attraversato da due forze opposte: da un lato la globalizzazione, le migrazioni che portano a una società multiculturale, dall’altro una tensione identitaria sempre più forte. La letteratura può essere un luogo di mediazione tra queste due tensioni?
«Ne dubito. Non sono una sociologa né un’economista ma direi che la migliore possibilità di mediare tra le rivendicazioni concorrenti del nazionalismo e del globalismo sia ripensare gli Stati nazionali. L’impegno per la loro idea di nazione non dovrebbe essere solo vuota retorica patriottica ma, piuttosto, lavorare per un sistema fiscale equo che tassi i ricchi in proporzione e regoli le molte multinazionali che nascondono i loro enormi profitti all’estero. Solo allora si potrebbe lavorare per la creazione di società eque che forniscano un’istruzione e un’assistenza sanitaria decente a tutti e un’ampia rete di sicurezza per i membri più poveri, specialmente i nuovi arrivati, che dovrebbe includere, per esempio, l’edilizia sociale sovvenzionata. Se questo accadesse, tutti potrebbero avere più tempo libero per la letteratura».
In «Questa strana e incontenibile stagione» scrive che il disprezzo è peggio dell’odio. È questa la radice del razzismo?
«Non credo che ci sia un’unica radice del razzismo. Non è un peccato originale da identificare e sradicare dall’anima delle persone leggendo manuali di istruzioni “antirazziste” e “confessando” il proprio pregiudizio. È autoassolutorio. Non cambia nulla. Il razzismo, come tutte le oppressioni, è un fenomeno storico e strutturale, non un peccato di coscienza individuale. È un rapporto di potere, non un elemento essenziale o naturale di qualsiasi paesaggio. In Nigeria la polizia è nera e il popolo è nero: l’oppressione esiste ancora. L’oppressione delle persone della diaspora africana in tutto il mondo è stata una conseguenza della loro relativa impotenza sociale ed economica, iniziata in quella forma violenta ed estrema del capitalismo conosciuta come schiavitù. Per parlare solo dell’America, la lotta per il pieno suffragio, cioè il diritto di voto per tutti gli uomini e le donne di colore, è iniziata nel Settecento. Mentre l’Italia lottava per affermarsi come un unico Paese, nel 1857, la sentenza Dredd Scott in America stabiliva che l’uomo di colore “non aveva diritti che l’uomo bianco dovesse rispettare”. Questo tipo di sentenze giuridiche e gli atteggiamenti sociali che si creano di conseguenza sono la “radice” storica del razzismo, non le metafore poetiche o gli eufemismi. Ma una parola per rifiutare i diritti di un altro essere umano è disprezzo, sì».
In «Kelso decostruito», uno dei racconti di «Grand Union», racconta l’ultimo giorno di Kelso Cochrane, un immigrato di Antigua vittima di un accoltellamento a sfondo razziale nel 1959 a Notting Hill. Fatti come questi accadono ancora, soprattutto negli Stati Uniti. Che cosa l’ha colpita di questa storia?
«Innanzitutto il fatto che sia stata conservata, e non dallo Stato o dai media o da qualsiasi organo ufficiale della memoria collettiva, ma dalla gente stessa. Poi che, sebbene si tratti del racconto di quello che oggi ovunque è definito “dolore nero”, o della sofferenza del “corpo nero”, al funerale di Kelso una vasta comunità multirazziale di persone in lutto è scesa in strada per riconoscere la relazione tra quest’uomo nero e il proprio essere: una sofferenza umana a cui tutti hanno sentito il dovere etico e sociale di partecipare. In terzo luogo, lo stesso Kelso. Un giovane caraibico, bello e in lotta, stroncato nel fiore della sua giovinezza».
In «Questa strana e incontenibile stagione» scrive che la letteratura è controllo, resistenza, non creatività.
«Parlo per me, per il mio tipo di scrittura. Non sono una persona molto creativa. Casa, cibo, disegno: a parte scrivere delle frasi, con le mani non so fare nulla di creativo. Invece conosco persone veramente creative. La mia amica Leanne Shapton fa arte ogni secondo di ogni giorno, non può farne a meno. Io non sono così. La mia è una vita inglese molto noiosa: assomiglia a qualsiasi altra vita inglese. Viaggio con i pacchetti vacanze, mangio le solite cose, faccio le solite esperienze, credo. Non sono una persona di estremi. L’unica cosa vagamente creativa di me è che trovo queste solite cose, la vita media, infinitamente strane e interessanti, a cui vale la pena pensare, che siano le mie o quelle degli altri. Non saprei cosa fare con tutta l’avventura che hanno avuto, per esempio, D. H. Lawrence o Zora Neale Hurston. Se esco di casa ed entro in un negozio, ecco, per me ci sono quattro romanzi proprio lì. Devo limitare la quantità di esperienze che faccio, altrimenti non farei altro che scrivere. Mi basta il grande mistero della coscienza: cercare di trovare un modo per esprimere questo con il linguaggio è la mia creatività. In questo senso la scrittura è un atto di controllo. Si tratta di contenere in questa camicia di forza che è la lingua ciò che per sua stessa natura è ineffabile e difficile da esprimere».
Quindi l’osservazione di ciò che accade intorno a lei è alla base della sua ispirazione?
«Quello e i prodotti secondari dell’osservazione umana, cioè i romanzi, i film, le storie, i racconti, i dipinti, le sculture, le poesie e così via».
Quando si parla di letteratura, specialmente in America, oggi uno dei temi di discussione è la cosiddetta «appropriazione culturale». C’è chi ritiene che quando si parla di minoranze, di identità, si possa scrivere solo di ciò che si conosce, di ciò che in qualche modo ci appartiene.
«Appropriazione culturale non è un concetto che accetto. È un’espressione che, se devo rispondere a questa domanda, concede già troppo. Ammette, per esempio, l’idea che esiste una comunità maggioritaria rispetto alla quale non ci si può “appropriare” di nulla, essendo questo pericolo apparentemente di esclusiva pertinenza delle “minoranze”. O, per dirla in un altro modo, ammette l’idea che la “cultura bianca” possa essere così forte, così impenetrabile, così onnipresente che non può essere rubata, danneggiata, che non ce ne possiamo appropriare. Io non ci credo. Perché quello che ne consegue è che uno scrittore bianco può “appropriarsi” della mia “identità” per creare un personaggio, mentre quando io, una scrittrice nera, rubo completamente il corpo di un uomo bianco e lo reinvento nella finzione, come Howard Belsey in On Beauty, — non posso essere un pericolo per la cultura di uomini come lui. Posso solo “ritrarre”, non “appropriarmi”. Dico tutto questo per dimostrare come i tentativi anche benintenzionati di analisi culturale spesso finiscano per riaffermare noiosissime gerarchie di potere e i più sospettosi tra noi possono pensare che a qualche livello subconscio sia proprio questo il loro scopo: stabilire una gerarchia permanente».
A lei non interessano le gerarchie permanenti...
«Nutro per la mia cultura troppo orgoglio per considerarla vulnerabile. Inoltre non posso accettare teorie storiche che pretendono che particolari espressioni culturali appartengano esclusivamente a determinati gruppi. Chiunque abbia la più vaga comprensione della storia delle culture sa quanto siano eterogenee e quanto esse stesse siano il prodotto di continui furti, prese in prestito e germinazioni incrociate. Per sottoscrivere questi dogmatismi bisognerebbe ignorare di proposito 2 mila anni di impollinazione incrociata tra culture. Non posso farlo. Ma capisco che imitare volgarmente aspetti di una preziosa espressione culturale o riprodurla male o rubarne una versione per un chiaro scopo commerciale sia una caratteristica deprimente di certa produzione artistica. Io cerco di fare in modo che non sia la mia».

Che cosa significa per lei Londra dal punto di vista creativo? Come influenza il suo lavoro?
«La Londra nordoccidentale è la struttura della mia immaginazione, è l’angolo di mondo che conosco meglio. Non credo che abbia importanza dove si trova l’angolo di uno scrittore: tutti sono ugualmente interessanti. Ciò che conta è l’amore e l’attenzione che quest’angolo ispira. Ancora meglio è se riesci a portare con te quel livello di attenzione ovunque tu vada. Ma forse non potrai mai essere così attento come lo sei alle strade che conoscevi da bambino».
Come vive questo periodo difficile?
«Non lo vivo bene, certo non con coraggio. Ho ben poco di cui lamentarmi, eppure mi lamento all’infinito. Se non fosse stato per i miei figli sarei stata a letto tutto il giorno con una depressione grave e senza fine. Ma così com’è, devo alzarmi e fare delle cose. Qualsiasi single senza figli che abbia evitato la depressione è un miracolo per me. Tutti quelli che hanno continuato ad andare avanti mentre il loro sostentamento economico è svanito e le loro scuole sono state chiuse, lo sono. I miei figli sono a scuola e io lavoro da casa. E mi sento comunque sopraffatta».