La Lettura, 8 novembre 2020
Senza saperlo il treno fa il filosofo
La ferrovia aderisce come una seconda pelle alla faccia della Terra, però è il risultato e insieme il veicolo di almeno un paio di straordinarie capriole. Il 4 gennaio 1872 una signora, Anna Stepanovna Pirogova, si buttava sotto un treno alla stazione di Jerenski, lungo la ferrovia che da Mosca conduce a Kursk.
Lev Tolstoj abitava lì vicino, e nel 1877 traspose l’evento nel suicidio di Anna Karenina, che nell’omonimo romanzo viene fatta morire proprio nei giorni in cui si iniziava a pensare alla costruzione della Transiberiana da Mosca a Vladivostok, sul Pacifico: ancora oggi la ferrovia più lunga al mondo con i suoi quasi 10 mila chilometri di percorso attraverso due continenti e sette fusi orari, aperta nel 1903 dopo essere stata iniziata nel 1891 dal futuro imperatore Nicola II, che trasportò di persona la prima carretta di terra.
È tra queste date che si salda la grande presa sul mondo della strada ferrata, la cui estensione resta poco più che invariata da circa un secolo a questa parte. Nel 1840 esistevano sulla Terra 8 mila chilometri di ferrovie, più di 200 mila trent’anni dopo, quasi 800 mila alla fine dell’Ottocento, più di 13 milioni alla vigilia della Prima guerra mondiale. E mentre Anna Stepanovna iniziava a trasformarsi in Anna Karenina, nel 1873, a Parigi, usciva Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne, l’opera che il filosofo Peter Sloterdijk ritiene la più precisa illustrazione del «traffico globalizzato».
È davvero così? Dipende, e in ogni caso non è soltanto e semplicemente così. All’interno della progressiva, moderna trasformazione della superficie terrestre in un’unica, gigantesca mappa ( il programma dell’intera modernità) il secolo del «cammino di ferro» è quello centrale: se l’avvento dei percorsi stradali rettilinei nel Settecento, esito dell’epoca barocca, conclude la fase originaria della formazione statale moderna, lo sviluppo della ferrovia coincide con la sua maturità e quello delle autostrade con l’avvio novecentesco del suo declino.
All’inizio dell’Ottocento la meccanizzazione del traffico dovuta all’impiego della forza del vapore capovolge il rapporto tra regno naturale e mezzo di locomozione, che secondo la logica della trazione animale sottometteva questo a quello. Grazie a tale prima capriola la velocità e le caratteristiche del movimento non dipendono più dal comando del dato ambientale sul vettore, come fino ad allora era stato, perché la nuova forma di trazione si costruisce un ambito del tutto emancipato dai processi naturali e del tutto coerente con il processo di astrazione cui, a metà Seicento, Thomas Hobbes, nel Leviatano, aveva sottoposto lo Stato, trasformandolo appunto in un campo di relazioni meccaniche. In seno al quale la strada ferrata si afferma come l’applicazione della prima legge di Newton sul moto secondo il quale, in assenza di una forza contraria, ogni corpo persevera nel proprio stato di quiete o di moto uniforme e rettilineo. Modello della strada ideale perché (quasi) priva di attriti, essa trasmette in tal modo alla superficie del nostro pianeta, con la meccanicità del movimento, l’attributo decisivo per la traduzione di essa in termini di spazio: lo standard, l’invariante intervallo metrico lineare.
Così sistema delle strade ferrate e Stato moderno funzionano esattamente secondo gli stessi principi, si comportano come un’unica grande macchina ed esigono direzione unitaria e movimenti coordinati proprio perché ambedue agenti e, allo stesso tempo, prodotto del modello spaziale, fondato su una distesa continua, omogenea e isotropa (nella quale, cioè, tutti i punti sono rivolti verso un unico centro). Una distesa che, in quanto tale, consente la massima riduzione del mondo a tempo di percorrenza. Come si trova a sperimentare Phileas Fogg, l’eroe del racconto di Verne, che si comporta proprio come una locomotiva: un signore sempre «portato a scegliere il tragitto più corto» secondo «le regole della meccanica razionale», all’interno di un «mondo sottovuoto, senza attrito, poiché gli attriti, si sa, fanno perdere tempo».
Il suo più potente nemico, insegna la vicenda, è il suo maggior alleato, che tra gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento nasce insieme alla ferrovia e si sviluppa in simbiosi con essa: il telegrafo elettrico. Ed è a questo punto che, a quel che dice Sloterdijk sul rapporto tra globalizzazione e ferrovia, va aggiunto qualcosa. Fu proprio la ferrovia, infatti, a promuovere e indirizzare l’avanzata del telegrafo, che permetteva alla strada ferrata di evitare sia gli incidenti che il raddoppio del binario, consentendo ai convogli che viaggiavano in senso opposto di sostare soltanto lo stretto necessario a evitare collisioni. Il telegrafo faceva risparmiare tempo e denaro, che proprio in tal modo divennero definitivamente la stessa cosa.
E fu così che il modello del sistema ferroviario si trasferì alla comunicazione, codificando già alla fine della prima metà dell’Ottocento il concetto di rete intesa come l’«intreccio di oggetti disposti in linee»: definizione, di Armand Mattelart, che meglio di ogni altra esprime la compiuta riduzione della superficie terrestre alla sua immagine cartografica. In altri termini: fu proprio la strada ferrata produttrice di spazio a guidare la nascita della telecomunicazione e, con ciò, a promuovere insieme la riduzione delle cose a impulsi immateriali, a innescare la smaterializzazione del funzionamento del mondo, quella che Janet Abu-Lughod ha appunto definito la sua «despazializzazione».
Una seconda, ancora più formidabile capriola insomma, con la quale lo spazio viene quotidianamente costruito soltanto per essere contemporaneamente annichilito: la capriola in cui ci troviamo oggi tutti più che mai coinvolti. E ancora in attesa di capire quando e come di nuovo toccheremo terra, se mai torneremo a fare corpo con essa.