La Lettura, 8 novembre 2020
Ci vogliono i miti per spiegare a tutti la matematica
Nel 1900, in occasione di uno storico Congresso internazionale a Parigi, David Hilbert raccontava che un matematico francese, vissuto diverso tempo prima, sosteneva che «una teoria matematica non deve essere considerata perfetta finché non sia stata resa talmente chiara da poterla far comprendere alla prima persona che si incontri per strada». Questa richiesta di chiarezza non doveva riguardare solo teorie già sistematizzate ma anche problemi non ancora risolti, domande che si sarebbero potute o dovute porre in ambiti ancora non perfezionati della conoscenza scientifica. I problemi, non solo le teorie, dovevano essere perfetti al punto da essere comprensibili a chiunque.
Nella stessa occasione Hilbert elencò 23 celebri problemi aperti che sarebbero diventati altrettanti campi di indagine della matematica del Novecento. La chiarezza della loro formulazione sarebbe stata un presupposto della possibilità di risolverli o almeno di interpretarli nel modo che avrebbe consentito di cercarne una soluzione. Dal ventitreesimo problema presero spunto, in particolare, le ricerche sul concetto di algoritmo e lo sviluppo della computer science dal modello della Macchina di Turing. Ma che cosa dovremmo infine trasmettere alla prima persona che incontriamo per strada? Dovremmo forse limitarci agli aspetti più tecnici della risoluzione dei problemi? E che cosa, in fondo, ci insegnano le grandi opere di scienza divulgativa, dalle lezioni del fisico e filosofo austriaco Ernst Mach e dai libri più semplici in cui Albert Einstein spiegava le sue teorie relativistiche fino alle opere che ci parlano ora di ciò che è stato scoperto nei più svariati ambiti della fisica e della biologia, della chimica e della matematica, della medicina e dell’informatica?
Si ritiene di solito che la spiegazione piana e semplice di una teoria consenta al profano di accedere a una forma di conoscenza per la quale sarebbe in realtà necessario un lungo apprendistato. L’apprendistato, s’intende, è inevitabile per una piena comprensione, e non si comunica davvero il significato di una prova sperimentale, di un’ipotesi o di una teoria senza percorrere, almeno in parte, il lungo e tortuoso cammino che ha portato a formularla. Ma proprio qui sta il punto. Ogni comunicazione di verità scientifiche dovrebbe recuperare le loro più profonde motivazioni iniziali, per ripercorrere poi le importanti modifiche che esse hanno subito nel corso degli anni o nei secoli. L’inizio di una teoria è di solito più facile da capire delle sue conclusioni più avanzate e serve a illuminarne gli scopi e i significati. Pur volta al presente e alle conquiste più recenti, la divulgazione della scienza non può allora prescindere da una storia dei concetti, come pure dalle più diverse circostanze sociali e culturali, e perfino dallo sfondo mitico che potrebbe avere concorso a quelle conquiste.
Uno sfondo mitico non era certo assente nel clima complessivo che avvolgeva il Congresso parigino del 1900 e Hilbert, si può immaginare, non poteva evitare di sentirsene suggestionato. Egli notava che nello sforzo inventivo la concentrazione su problemi determinati e particolari doveva avere la preminenza rispetto a processi troppo rapidi di generalizzazione. Per risolvere o inventare, la mente ha bisogno di concentrarsi e di specializzarsi, e non si può negare che la specializzazione sia il primo presupposto della scoperta scientifica. Tuttavia, in quell’occasione, l’allargamento di prospettiva era lontano dall’essere insignificante o superfluo. Hilbert notava pure che, quando ci confrontiamo con un problema di natura aritmetica o geometrica, ci affidiamo, sulle prime, a una combinazione di ragionamenti rapidi, passeggeri e spesso incoscienti, con una fiducia pressoché assoluta nella potenza dei simboli. Ora i complessi motivi e, azzardiamo pure, il fuoco inesplicabile del thymós (l’animo, il sentimento, l’ardire) – ignoriamo se divino o demonico – che alimentano quella fiducia potrebbero avere origine in cose che non sappiamo e che tuttavia dovremmo scoprire, al di là di ogni dettaglio tecnico, per capire tutto il significato delle nostre scoperte.
In pieno secolo XIX il filosofo francese Félix Ravaisson aveva denunciato come una completa falsità la tesi positivista e materialista per la quale la storia del mondo consiste in un perpetuo progresso che si origina dai confini del nulla e senza alcun principio interno o esterno si eleva da sé fino alle forme più complesse del pensiero e della coscienza. Ravaisson aveva presagito, con perfetta chiaroveggenza, il prossimo avvento nella Francia di fine secolo di un Nuovo Positivismo, e con esso un dialogo necessario di nuova specie tra scienza e speculazione metafisica, al di là sia di uno stretto positivismo sia di una sterile dialettica dell’esprit.
Non era certo un caso, allora, che Hilbert lanciasse le sue proposte, nel 1900, proprio da Parigi. La forza del loro impatto derivava, non da ultimo, dal clima di fiducia e di euforia di allora e dalla persuasione diffusa che ci si stava accingendo a uno sforzo eroico, nel senso proprio e mitico del termine, quasi si trattasse di una discesa del divino sulla terra, nelle forme proprie che la scienza avrebbe potuto apprestargli. L’uomo matematico di allora era visto come una sorta di demiurgo, esattamente come se lo figurò lo scienziato tedesco Richard Dedekind in una lettera del 1888: «Noi siamo di razza divina e abbiamo il potere di creare».
Senza queste premesse non ci si può fare un’idea precisa dell’impatto drammatico della crisi dei fondamenti che subentrò nella matematica – come pure nella fisica – nel primo Novecento. E non si capirebbe neppure il clima che avvolge oggi la scienza – in particolare la scienza del calcolo – che di quella crisi è la lontana e pur prevedibile conseguenza. Il mito può agire in diverse forme – lo sapeva pure Norbert Wiener – anche nel sapere scientifico.
L’esempio di questo delicato passaggio della storia della scienza, tra fine Ottocento e primo Novecento, basterebbe da solo a spiegare di che cosa dovrebbe tener conto ciò che si chiama di solito, con un’espressione non sempre felice, «divulgazione scientifica». Il punto da notare è che le ricerche avviate dalle proposte di Hilbert, pur spiegate con la massima semplicità, non sarebbero sufficienti da sole a spiegare alla prima persona che si incontri per strada tutte le motivazioni che le avevano propiziate, e neppure le loro ultime e più concrete implicazioni, nell’ambito della scienza applicata, che abbiamo tutti, oggi, sotto i nostri occhi.
L’uomo della strada ha pure il bisogno di commisurare le scoperte della scienza a quello che lui sa o crede di sapere in base al senso comune, a cui ha sempre affidato la possibilità di orientarsi nella sfera del sapere e dell’agire. Dalla meccanica quantistica alle teorie matematiche del continuo la scienza ci ha abituati a concepire il mondo diversamente da come appare e in forme non facilmente accessibili alla nostra intuizione; tuttavia non va sottovalutato il possibile legame delle più complesse teorie con assunzioni involontarie e inconsapevoli derivate dall’abitudine o dalla prassi.
Il riferimento al senso comune era una delle prerogative, secondo Ernst Mach, spesso implicite e riconoscibili in una teoria scientifica, per quanto astratta o innaturale questa potesse apparire. Anche un altro filosofo, Ludwig Wittgenstein, che leggeva Mach, non era lontano dal pensarlo. Un valente matematico britannico dell’Ottocento, William Kingdon Clifford, era autore di un libro dal titolo Il senso comune nelle scienze esatte (1885), in cui avvertiva che sarebbe senza dubbio cattiva algebra quella che, voltata nella nostra lingua, non soddisfi il senso comune.
Certo, nel corso del XIX secolo, fin dallo studio di nuove geometrie e di inimmaginabili funzioni generali e irregolari, con singolarità in un numero infinito di punti, era lecito pensare che il senso comune non sarebbe più bastato a giustificare e a comprendere le astrazioni della matematica. Tuttavia è sempre esistita una matematica computazionale e applicabile al mondo reale in cui l’astrazione deve scendere, per così dire, sulla terra, fino a trovare un corrispettivo nella concretezza del senso comune. E questo è più che mai evidente nella scienza del calcolo dell’ultimo secolo.
Che il recupero delle motivazioni iniziali sia utile anche alla comprensione delle teorie più difficili e avanzate lo sapeva il tedesco Hermann Weyl, uno dei grandi scienziati del Novecento. Weyl osservava che quando ci troviamo a operare con i nostri concetti lungo linee strettamente tecniche e formali, dovremmo ricordarci che le origini delle cose giacciono in strati più profondi di quelli a cui i metodi scientifici di cui ci serviamo consentono di discendere. Soltanto retrocedendo a quegli strati possiamo sperare di comprendere il significato delle nostre conquiste, anche in assenza di una formazione specifica o di un sapere specialistico nelle singole scienze.
Una buona divulgazione non può limitarsi a una piatta semplificazione di teorie astratte e difficili ma deve integrare il sapere scientifico con quelle ricche speculazioni mitiche, letterarie e filosofiche che l’hanno sempre accompagnato, e che ne spiegano, a tratti, le ragioni più riposte e le svolte più drammatiche. Mentre il lavoro scientifico procede in uno sforzo di concentrazione e specializzazione, la semplificazione divulgativa dovrebbe procedere all’opposto con un allargamento di prospettiva, nel quale le cose più impensate e apparentemente più estranee possono rivelarsi non meno importanti ed efficaci del metodo più consolidato.