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 2020  novembre 08 Domenica calendario

Putin, il grande restauratore

Come in una bella commedia di Pirandello (La signora Morli, una e due) anche Vladimir Putin, presidente della Federazione russa, ha due vite. La prima finisce quando nell’agosto del 1999, durante la presidenza di Boris Eltsin, un uomo pressoché sconosciuto al grande pubblico russo diventa primo ministro del suo Paese. La Cia, il Mi6 britannico, il Dgse francese e altri servizi d’intelligence avevano nei loro archivi una scheda sulla sua persona; e un rapido tam-tam ci spiegò che Putin era stato tenente colonnello del Kgb, che aveva diretto l’ufficio di Dresda quando ancora esisteva una Repubblica democratica tedesca e che dopo il crollo dell’Unione Sovietica era tornato a Leningrado, dove era nato e aveva studiato Giurisprudenza.
La buona sorte volle che il nuovo sindaco della città fosse uno dei suoi professori. Si chiamava Anatolij Sobchak, era un brillante giurista e si stava distinguendo nella politica nazionale per almeno due motivi: aveva scritto i primi regolamenti parlamentari della Repubblica federale russa, nata sulle ceneri dello Stato sovietico, e aveva restituito a Leningrado, con un referendum, il nome (San Pietroburgo) che lo zar Pietro il Grande aveva dato alla sua città.
Putin ebbe anche un altro protettore. La sua vecchia casa madre aveva cambiato nome divenendo «Servizio federale di sicurezza» ma non aveva cambiato pelle ed era una delle poche istituzioni nazionali che avevano, insieme a un forte spirito di corpo, una considerevole influenza nei corridoi del potere. Fino ad allora, il Fsb (la sigla russa del servizio segreto) si era astenuto dall’intervenire nella politica nazionale e aveva assistito senza battere ciglio alla privatizzazione dell’enorme patrimonio economico dello Stato sovietico. Ma non tardò a constatare che il trionfo del capitalismo aveva creato un nuovo ceto sociale composto da personaggi spregiudicati e pirateschi, a cui l’opinione pubblica dette subito il nome di «oligarchi». Per Putin, dopo il ritorno alla casa madre, di cui fu direttore per un anno (dal 1998 al 1999), cominciò una fase nuova. Boris Eltsin, presidente della Repubblica, lo volle alla guida del governo per alcuni mesi e ne fece pubblicamente il suo erede. Il 7 maggio del 2000, dopo due rapide tornate elettorali, Putin divenne capo dello Stato. Era l’inizio della sua seconda vita.
Esordì occupandosi degli oligarchi. Li convocò e disse che avrebbero potuto conservare le loro imprese soltanto se avessero smesso di rapinare lo Stato con i loro enormi profitti. Dei due che cercarono di resistergli (Boris Berezovskij e Mikhail Khodorkovskij) si sarebbe occupato, più bruscamente, quando avrebbe avuto in mano l’intera macchina dello Stato.
Il suo stile sbalordì il Paese e la comunità internazionale. George Bush jr, presidente degli Stati Uniti, disse di averlo guardato negli occhi e di avere visto la sua anima. Silvio Berlusconi parlava spesso di lui come di un caro amico. L’incontro atlantico di Pratica di Mare nel maggio del 2002, a cui Putin prese parte insieme al presidente americano, fu un successo personale e terminò con la nascita dell’associazione Nato-Russia.
Quasi tutti i suoi interlocutori credettero che il nuovo leader della Russia, dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica, fosse un modernizzatore e un riformatore. Non avevano torto. La battaglia ingaggiata contro gli oligarchi aveva dato ottimi risultati e le due grandi città del Paese non erano più teatro di scontri fra le bande che molti nuovi ricchi avevano reclutato per meglio ostentare le loro fortune ed eliminare fisicamente i concorrenti.
Quando fu necessario completare le riforme istituzionali di Boris Eltsin, Putin fu altrettanto efficace e la Russia, sotto la sua guida, divenne una rispettabile Repubblica presidenziale. Ma gli osservatori stranieri avevano trascurato un aspetto più importante del suo carattere. Non avevano capito che questo russo simpatico, gioviale e accogliente, era soprattutto un nazionalista e un restauratore. Voleva migliorare il livello di vita dei suoi connazionali e faceva quasi sempre una buona impressione sui suoi interlocutori. Ma era in primo luogo un accanito restauratore, pronto a tutto per restituire al suo Paese l’autorità e il prestigio perduti.
Il suo primo obiettivo fu la Cecenia. Dopo i tentativi falliti di Boris Eltsin. quella regione, collocata fra il Caucaso e il Mar Caspio, era diventata, dopo la proclamazione dell’indipendenza, una repubblica criminale, un nido di gangster e contrabbandieri, una pista di lancio per quell’islamismo radicale che stava uscendo dall’Afghanistan e si proponeva di conquistare le altre terre musulmane del grande spazio russo. Lo strumento di lotta preferito dei ceceni era il terrorismo: una carica di dinamite nel bagagliaio di un aereo civile, un’altra carica di dinamite nella metropolitana di Mosca, un’operazione di commando nel teatro Dubrovka e l’occupazione di una scuola piena di ragazzini in una cittadina (Beslan) dell’Ossezia del Nord. Vi furono anche incendi di case moscovite che molti attribuirono ad azioni provocatorie della «casa madre» di Putin. Ma il terrorismo islamista non era un’invenzione e il nuovo presidente lo affrontò con fermezza e una buona dose di cinismo (molti ostaggi del teatro e molti alunni della scuola furono sacrificati nel corso delle operazioni compiute dalle forze speciali contro i sequestratori). Voleva far capire ai nemici che la Russia non avrebbe mai ceduto al ricatto dei terroristi.
Molto più difficile fu il ritorno dell’intero Stato sovietico nei suoi vecchi confini geografici e geopolitici. Quando divenne segretario generale del partito, Putin ereditò un Paese che aveva già perduto la grande area d’influenza composta dai Paesi del Patto di Varsavia: Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania dell’Est, Polonia, Romania, Ungheria. E aveva rinunciato senza troppi rimpianti ai Paesi baltici — Estonia, Lettonia e Lituania — che erano stati repubbliche dell’Urss. Ma poteva ancora contare sui suoi rapporti speciali con due Paesi della galassia slava che erano appartenuti per alcuni secoli allo Stato zarista: Ucraina e Bielorussia.
Il quadro cambiò bruscamente quando l’Unione Europea e la Russia offrirono contemporaneamente all’Ucraina di aderire alle loro rispettive comunità economiche. La questione era nelle mani della diplomazia internazionale quando un colpo di Stato notturno nel Parlamento di Kiev portò al potere il partito che avrebbe scelto l’Unione Europea. L’inattesa risposta di Mosca fu l’occupazione della Crimea, una regione russa che il leader sovietico Nikita Khrusciov aveva regalato all’Ucraina nel febbraio del 1954 per festeggiare il terzo centenario di un patto di amicizia firmato dalla Russia con gli abitanti cosacchi di quelle terre. «Se il dono della Crimea serviva a rafforzare i nostri rapporti con l’Ucraina — così probabilmente ragionava Putin — perché non dovremmo riprendere il nostro dono nel momento in cui l’Ucraina ci lascia per andare a mettersi sotto l’ala protettrice dell’Unione Europea?». Del tutto diversa naturalmente fu la reazione dei Paesi dell’Ue e degli Stati Uniti, tutti egualmente indignati.
Una crisi analoga è scoppiata di recente quando in un altro Stato slavo della regione (la Bielorussia) il presidente Aleksandr Lukashenko è riuscito a conservare il potere con un’elezione macchiata da molti probabili brogli. Putin non si è schierato con Lukashenko ma la sua maggiore preoccupazione è stata quella di evitare che Washington cogliesse l’occasione per portare la Bielorussia nella sua sfera d’influenza. Sin dal suo primo giorno al Cremlino, Putin il Restauratore ha voluto conservare lo status che il suo Paese aveva conquistato durante la Seconda guerra mondiale.
Gli Stati Uniti erano la maggiore preoccupazione di Putin e di gran parte della classe dirigente russa. Per molti anni, dopo la fine della Seconda guerra mondiale e durante la guerra fredda, i due Paesi si erano trattati come potenziali nemici. Ma entrambi allora sapevano che in una guerra fra due potenze nucleari non vi sarebbero stati vincitori e che l’esistenza di due patti militari, «l’un contro l’altro armati» (la Nato e il Patto di Varsavia) era una garanzia di pace. Per meglio consolidare questa parità, i due Paesi avevano firmato trattati con cui ciascuno dei due accettava di mantenere il proprio arsenale al livello di quello dell’altro. Questa convivenza era diventata per Putin la migliore delle garanzie. Ma gli americani, dopo la disintegrazione dell’Urss, erano convinti di essere usciti vittoriosi dalla guerra fredda e si consideravano liberi da qualsiasi vincolo. La loro prima iniziativa fu allargare la Nato a tutti i Paesi che avevano fatto parte del Patto di Varsavia e agli Stati baltici; e la seconda è consistita nel denunciare i due maggiori trattati sulle armi nucleari (quello sui missili anti-missili e quello sui missili intermedi). Da quel momento sarebbero stati liberi di inventare nuove armi e di produrre senza limiti quelle di cui già disponevano.
Putin capì che l’epoca della convivenza paritaria era ormai finita e reagì con la sola arma che il suo Paese avrebbe saputo maneggiare con una sapienza tecnica non inferiore a quella dell’avversario. Era l’informatica: un’arma particolarmente congeniale a un uomo che aveva imparato il mestiere, durante la sua prima vita, nei corridoi del Kgb.
Naturalmente Putin ha parecchi difetti, fra cui uno spregiudicato attaccamento al potere e una concezione poco democratica dello Stato. Ma ciò che maggiormente infastidisce i suoi nemici americani è la costanza con cui persegue la sua politica restauratrice: un difetto che molti, non soltanto russi, chiamerebbero patriottismo.